L’invecchiamento della popolazione è una realtà comune a tutto il mondo occidentale, mentre il tempo a disposizione e le risorse umane sono limitati. Secondo molti esperti le nuove tecnologie robotiche potrebbero contribuire a soddisfare i bisogni assistenziali degli anziani, sia di coloro che possono vivere a casa, sia di quelli che vivono in ospedali e case di riposo. La robotica assistenziale potrebbe favorire la loro autonomia e fornire sostegno agli operatori del settore.

Il sistema robotico assistenziale

Un sistema robotico può essere definito come una intelligenza artificiale (IA) in grado di interagire nel mondo fisico, una IA embodied (incarnata), oppure come uno “smartphone con le mani”, per usare le parole di Giorgio Metta, vicedirettore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.

Il termine robot1 possiede attualmente diversi significati ed è funzionale a molteplici applicazioni, in ambito industriale, militare, o in operazioni di salvataggio. Nel contesto medico, oltre agli automi utilizzati in ambito diagnostico, chirurgico, terapeutico e riabilitativo, un settore emergente è quello dei cosiddetti robot assistenziali, macchine in grado di svolgere mansioni relative all’assistenza, in ambito fisico o emozionale.

I robot assistenziali fanno parte dei cosiddetti robot sociali, macchine autonome o semi-autonome capaci di interagire e comunicare con gli esseri umani o con altri agenti fisici seguendo comportamenti sociali e regole legate al loro ruolo specifico e al contesto in cui operano. Progettati per fornire aiuto e interazione sociale alle persone nella vita di tutti i giorni, nonché supporto cognitivo, formazione e sostegno agli operatori, possono aiutare a fare la spesa, accogliere nelle sale di attesa o fare i commessi nei grandi magazzini, aiutare a fare i compiti, sbrigare le faccende domestiche, diventare “amici” degli anziani2. Tra gli esempi di robot progettati per assistere le persone anziane troviamo Paro, (comPAnion RObot), progettato in Giappone, con l’aspetto di un cucciolo di foca. Paro interagisce autonomamente con le persone, ha una vasta gamma di comportamenti, ad esempio, può muovere le pinne, alzare la testa e battere le palpebre, in modo da risultare espressivo. Riconosce il proprio nome ma può imparane uno nuovo, per potere essere “ribattezzato” dai propri utenti. Capisce circa 500 parole in inglese, ancora di più in giapponese. Ha sensori sottocutanei che gli permettono di percepire se e come viene toccato, se dolcemente o in modo aggressivo. È rivestito di soffice pelo bianco che gli conferisce un aspetto da peluche che induce le persone a volerlo toccare o prendere in braccio. Non deve essere educato alla pulizia né alimentato. Basta ricaricarlo collegandolo alla rete elettrica mediante una presa a forma di succhietto che va introdotta nella sua bocca3.

Quale impatto effettivo nei confronti delle persone assistite e delle loro famiglie?

Diversi studi avrebbero evidenziato un effetto positivo dei robot sociali sulla salute mentale e fisica degli anziani. In particolare migliorerebbero la capacità di gestire lo stress e agirebbero positivamente anche sul tono dell’umore. Sono in genere descritti cambiamenti positivi a breve termine, soprattutto peraltro con la pet therapy con animali “veri”, senza la possibilità di evidenziare quale componente dell’intervento ne è la causa, ad esempio, l’aumento delle relazioni sociali o l’apporto della novità. Sicuramente è presente un importante effetto placebo. Gli studi di efficacia sono peraltro difficili da realizzare, basti pensare all’utilizzo del doppio cieco. Le case farmaceutiche, inoltre, non sono di certo interessate.

Gli incessanti sviluppi tecnologici non hanno condotto ad una produzione su scala industriale, ma il mercato dei robot di servizio è comunque in costante espansione e si prevede una crescita significativa nei prossimi anni. In Italia manca in particolare il supporto politico e l’investimento industriale perché i prototipi realizzati artigianalmente possano diventare un prodotto di massa4. La robotica assistenziale rappresenta peraltro solo una piccola quota del mercato odierno. Attualmente, il robot aspirapolvere è forse il dispositivo robotico per famiglie più diffuso. In Finlandia, paese scandinavo con un livello piuttosto alto di utilizzo della tecnologia, circa il 3% del personale che fornisce assistenza alle persone anziane ha utilizzato la robotica assistenziale nel proprio lavoro.

Homo roboticus e homo sapiens sapiens

I robot sociali, progettati per soddisfare i bisogni, intrinseci negli esseri umani, di legami “affettivi”, non percepiscono ciò che percepiscono gli umani, non possono “sentire” nulla, non possono provare la sensazione di interazione sociale. Non è, quindi, possibile un’empatia robotica. Peraltro, secondo alcuni filosofi come Luisa Damiano e Paul Dumouchel, per una relazione affettiva non sarebbero indispensabili stati interni, che i robot non hanno e non possono avere, ma è necessario soltanto che l’agente artificiale sia in grado di modificare il proprio comportamento in funzione delle espressioni emozionali dei partner sociali, ciò che i suddetti autori chiamano “empatia artificiale5”.

È comunque accettabile che persone fragili e vulnerabili si affezionino ad agenti robotici che sostanzialmente fingono di avere emozioni, ma non ne hanno? Secondo Sherry Turkle, il robot ha un notevole potenziale terapeutico, in quanto consente di curare le persone consentendo loro di offrire, pur ad un automa anaffettivo, il conforto di cui loro stessi hanno in realtà bisogno. La sola rappresentazione del legame affettivo sarebbe un legame sufficiente, peraltro nei confronti di un comportamento, non certo di un sentimento.

È inoltre difficile concordare con chi asserisce che i pazienti affetti da demenza non si accorgerebbero della differenza tra un essere umano e un robot. Come afferma Sherry Turkle, non sappiamo davvero come queste persone percepiscono la voce umana, le espressioni dei volti e il contato fisico. Fornire sostituti tecnologici alle cure umane potrebbe non essere “lo stesso”. Inoltre, delegare quello che un tempo era un compito svolto per affetto e a titolo gratuito cambia la stessa persona che delega: quando ci sgraviamo del peso dell’accudimento, cominciamo a rinunciare al patto secondo cui gli esseri umani si prenderanno cura gli uni degli altri. Spesso, gli ultimi periodi di attenzione e cura dell’anziano possono essere tra i più importanti che una persona può condividere con i propri cari.

È peraltro vero che gli esseri umani deludono, i robot no. Questi non abbandonano, mentre gli amici e gli stessi familiari spesso non capiscono (o fingono di non capire) i bisogni degli anziani, più o meno implicitamente spesso considerati un peso. Secondo alcuni, un robot sociale come compagno-assistente sarebbe meglio di nessun accudimento, e comunque meglio di personale in alcuni casi distratto, svogliato, in un’atmosfera di glaciale indifferenza. Sicuramente un robot non è in grado di capire se un anziano è preoccupato o triste o se vuole morire: ma quanti addetti ai lavori sono veramente in grado di farlo? Se l’assistenza viene ulteriormente standardizzata, ridotta ad un copione predefinito, eseguita meccanicamente, è forse più facile accettare un ausiliario homo robot anziché un sapiens sapiens

Riflessioni e conclusioni

Il dibattito sulla robotica assistenziale (e in generale sociale) è estremamente attuale, le tecnologie di processo e di prodotto sono in rapido sviluppo e gli scenari futuri dell’assistenza robotica trovano ampio spazio anche nei mezzi di comunicazione di massa. I robot assistenziali, sempre più sofisticati e sviluppati rispetto a quelli attualmente a disposizione, possono potenziare l’autonomia delle persone. Tuttavia, è difficile accettare la concezione dei robot come personale di assistenza, dal momento che questa è basata soprattutto su relazioni a livello personale, sociale e affettivo e suoi aspetti fondamentali sono la premura, l’attenzione, la vicinanza, la comprensione. Caratteristiche umane, semplicemente ma esclusivamente umane, le uniche che permettono di costruire vere comunità di cura. Da questo punto di vista, un robot che fornisce assistenza appare qualcosa di inumano, ingannevole e inappropriato.

I robot ci invitano a riflettere su come vogliamo essere, che tipo di persone vogliamo diventare, dal momento che ci stiamo lanciando in rapporti sempre più intimi con le macchine e sempre meno nei confronti dei diritti e del rispetto delle persone vere. Forse è sbagliato rimanere fissati a categorie interpretative e codici etici predefiniti, ancorati al passato ma (proprio per questo) costitutivi dell’identità umana. Dovremmo invece adeguarci alla evoluzione artificiale delle inedite questioni etiche emergenti dalle nascenti ecologie sociali miste uomo-robot? Dovremmo accettare la possibilità di emozioni sintetiche, rappresentazioni delle nostre, provenienti da oggetti da noi realizzati, accettare/arrendersi quindi ad una inquietante etica “sintetica”?

1 Introdotta per la prima volta in un dramma teatrale del 1920, R.U.R. (Robot Universali di Rossum), dell’autore ceco Karel Capek, la parola deriva dall’antico slavo robota che indica il lavoro di fatica che i contadini dovevano prestare ai proprietari terrieri. Per questa origine linguistica il termine deve essere pronunciato ròbot e non robò alla francese (da Henin S. AI - Intelligenza artificiale tra incubo e sogno, Hoepli, Milano 2019).
2 Larizza A. Robot Progettati per essere sociali.
3 Per una descrizione approfondita dei robot citati e di molti altri si consiglia il sito Robotiko.
4 Caldelli V. Lisa e Diago, Robot domestici.
5 Dumouchel P, Damiano L. Vivere con I robot. Saggio sull’empatia artificiale. Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.