Il disease mongering (commercio di malattie) è una forma di medicalizzazione che provoca l’aumento del numero di malattie e malati allo scopo di allargare il mercato della salute. Tale commercio viene esteso alle problematiche della vita e della morte, alle emozioni, alla sessualità.

Il marketing enfatizza i rischi di malattia, i pericoli per la salute e specularmente elenca i potenziali benefici delle cure mediche, le possibilità di intervento, per rassicurare chi nel frattempo è stato trasformato in malato e quindi in consumatore.

Le persone non sono considerate cittadini ma consumatori. I diritti di salute sono subordinati a quelli economici e si evidenzia una tendenza sempre maggiore a ridurre il progetto salute ad opzione, riferimento da enunciare, senza impegni da mantenere effettivamente.

Il connubio tra business e medicina non è peraltro recente, una lucida descrizione delle dinamiche con cui il mercato colonizza massicciamente l’ambito della salute è presente, ad esempio, nel testo fondamentale Nemesi Medica di I. Illich, dove viene descritta la paradossale nocività del sistema medico: “Il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi prognosticati. Dopo la cura delle malattie, anche la cura della salute è diventata una merce… ci si tramuta in pazienti senza essere malati”1.

Un tempo valeva la regola Medicus non accedat nisi vocatur (il medico non varchi la soglia se non è chiamato): il paziente, in base alla sintomatologia avvertita, decideva di recarsi dal medico. Oggi è il medico che stabilisce chi deve curarsi, indipendentemente dalla soggettività, in un passaggio sempre più sfumato dalla clinica alla preclinica, dalla cura del malato alla cura del sano2. Qualcuno si è chiesto se il sano non è in fondo soltanto “uno che non ha fatto abbastanza esami” 3.

Il disease mongering ha molto successo, oltre che per la potente alleanza fra industrie, medici e organizzazioni di pazienti, per una serie di altri motivi, ad esempio, perché fa leva sulla necessità delle persone di conformarsi a modelli idealizzati di apparenza e comportamento e perché fornisce risposte alla paura atavica di soffrire e morire.

La medicalizzazione, inoltre, è diventata il principale strumento per l’attribuzione di senso e riconoscimento sociale a fenomeni quali l’ansia, l’insoddisfazione, il disagio del vivere. Non va pertanto considerata un fenomeno costrittivo, etero-imposto, ma il frutto di un meccanismo selettivo, basato sui bisogni fondamentali della nostra esistenza.

Si assiste ad una sempre maggiore espropriazione delle percezioni: il paziente, che dovrebbe essere l’esperto di se stesso, in realtà spesso non si identifica in tale ruolo. La conoscenza di sé sta diventando vera solo in quanto scientifica. Gli accertamenti, anziché strumento di conoscenza, di conferma di un’ipotesi diagnostica, sono divenuti oggetti di conoscenza “in sé”, rischiando di perdere il loro significato originale4.

La medicina provoca inoltre una vera e propria costruzione delle malattie: la progressiva riduzione delle soglie diagnostiche e terapeutiche fa si che, ad esempio, nella maggior parte delle persone i livelli di colesterolo e pressione arteriosa non risultino quasi mai normali.

Una delle più gravi conseguenze dell’enfasi sui determinanti medici della salute è, infine, il riduzionismo nella soluzione dei problemi, l’interesse prevalente sulle patologie, che devia l’attenzione e le risorse della collettività dai ben più importanti determinanti sociali, economici e ambientali.

1 Illich I., Nemesi Medica. L’espropriazione della salute, 1977.
2 Satolli R., La medicina che gioca di anticipo, Janus 2007; 26: 41-43.
3 Smith R., 2003.
4 Tombesi M., Comunicazione personale.