La rivoluzione digitale e le relazioni social su Internet, nonché la prossimità fisica degli smartphone alle persone, hanno già determinato un cambiamento epocale e una mutazione antropologica, le cui proporzioni reali sono ancora ben lontane dall’esser misurate e, in definitiva, comprese. Un vantaggio enorme per tutti, è evidente e sarebbe sbagliato negarlo o anche soltanto sminuirlo. Come in tutto ciò che concerne l’esistenza però ci sono anche i lati negativi, il rovescio della medaglia. Anche questi aspetti sono noti e in tanti vi hanno speso fiumi di parole, a volte centrando il bersaglio altre no. Infatti dovendo identificare un punto, ed uno soltanto, in cui la rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni sta segnando un pericoloso arretramento, ecco, io lo trovo nella memoria, nella facoltà della memoria umana. È una questione di tempi e di spazi, ma anche – e soprattutto – di significati.

Una volta per fare politica dovevi uscire di casa e andare alla sezione del partito; per assistere a un concerto, uno spettacolo o una conferenza dovevi recarti a teatro, all’università o in un altro luogo di cultura. Per avere a disposizione molti libri e giornali dovevi uscire di casa e recarti in biblioteca. Per fare due chiacchiere da bar dovevi andare, per l’appunto, al bar. Per sfogarti dovevi aspettare la domenica pomeriggio recandoti allo stadio a fare i cori e a urlare contro l’arbitro e la squadra avversaria. Insomma, per ogni cosa c’era un luogo dedicato e dovevi spostarti tra luoghi diversi che spesso erano anche lontani tra loro. E per tutto questo ci voleva molto tempo. Adesso con il computer e con i social puoi restare fermo ed è tutto immediato. Ogni azione, pensiero, attività e persino ogni ricordo fino a pochi decenni fa aveva un suo “posto” collocato nello spazio e nel tempo, situato nel mondo fuori dalla tua stanza. È abbastanza ovvio affermare che la nostra memoria ha una forte componente “spaziale”, ma lo è meno se aggiungiamo che anche la nostra razionalità ha un legame profondo con lo spazio, con lo spazio fisico intendo dire. La schizofrenia della mente nei social si riverbera nella società tutta. Scorrendo le pagine web dei social e dei giornali possiamo vedere di seguito l’uno all’altro un post straziante e uno frivolo ecc. Non soltanto così si perde il senso della misura e si relativizza tutto in maniera abnorme ed impropria ma, soprattutto, ci si abitua a concedere la nostra attenzione a contenuti “semantici” scissi gli uni dagli altri. Manca cioè un filo logico, un legame dell’immaginazione che leghi un contenuto, un pensiero all’altro. La razionalità non è mai in una singola idea in sé presa, ma si manifesta sempre nella LOGICA delle relazioni che si stabiliscono tra idee e tra idee e parole. Aver azzerato i tempi e lo spazio e aver messo in successione contenuti scissi, a volte contraddittori gli uni con gli altri, ci ha reso tutti meno razionali.

Nel Medioevo costruivano zattere su cui caricavano folli e poi le trainavano al largo lasciandole alla deriva nell’immenso oceano. Al di là della brutalità e profonda cattiveria di un’azione del genere, dobbiamo anche cercare di comprendere l’elemento (dell’immaginazione) che legava la follia o, ad esser più precisi, l’idea della follia con l’oceano. La follia è l’indistinto, l’infinita pianura d’acqua sempre uguale a sé stessa, la superficie di un abisso pesante, oscuro, asfittico. E quando il tempo volge al peggio, l’acqua si increspa, si agita, si alzano onde impetuose e terrificanti e i disperati alla deriva su un natante pericolante vengono inghiottiti dai flutti, proprio come accade al folle che precipita nella sua follia. Proprio come accade agli alienati di Internet. Tutti i contenuti vengono posti nell’oceano dell’indistinzione, si equivalgono, si compensano almeno fin quando una turbolenza esogena ed eterodiretta non li fa affondare nell’abisso dell’oblio. Lo spazio di Internet è un luogo immateriale e indistinto, così come il tuo tempo ha una durata indefinita che “regge” fin quando il sentimento tiene attaccati all’immagine o al messaggio che lo smartphone ci invia.

Mancano i nessi logici. La realtà tecnologica ci pone davanti a legami associativi (mentali e fisici, procedurali) preordinati, precostituiti. Abbiamo ottenuto dei vantaggi, indubbiamente, ma abbiamo anche pagato un costo. Il bilancio segna certamente un attivo importante, ma dobbiamo esser consapevoli di ciò che abbiamo dato in cambio: libertà e povertà di pensiero. Sei libera/o di comunicare con chi vuoi in tutto il mondo, ma lo devi fare seguendo procedure obbligate. Non ci credi? Se vuoi iscriverti a un social, a una mailing-list ecc. devi compilare un form con i tuoi dati e se non lo fai come ti viene richiesto, l’iscrizione non la ottieni. Ma non finisce certo lì, una volta iscritto se vuoi comunicare con gli altri devi seguire determinate procedure: devi prima premere quel bottone, poi quell’altro e così via. Hai deciso forse tu la successione e il numero di procedure per portare a compimento la comunicazione? Scegliere le informazioni che devi “cedere”, i consensi che devi dare, non sono forse operazioni che ti impegnano? Che ti coinvolgono senza che la tua volontà possa esercitare alcuna funzione: se vuoi partecipare le regole sono queste, altrimenti sei fuori. Dal punto di vista cognitivo le cose vanno peggio ancora: è la schiavitù del premere i bottoni, dello scorrere delle dita sui touchscreen. È risaputo che il mezzo determina, almeno in parte, il significato del messaggio; ma qui, adesso, c’è di più. Il medium si erge a modello mentale. Questo è il problema fondamentale dell’intelligenza umana nel nuovo millennio. L’oggetto fisico smartphone è già di per sé un’astrazione, l’unica cosa “veramente” concreta è la sequenza di tasti che dobbiamo premere per inviare o ricevere i messaggi, per accedere alle informazioni. Non accedi più alle informazioni che realmente vorresti avere, bensì a quelle che ti sono concesse se e solo se attui la procedura appropriata, cioè consentita. La logica del ragionamento umano viene sempre più delegata alla procedura con cui lo si deve “necessariamente” veicolare agli altri. Il medium, il mezzo di trasmissione dell’informazione è esso stesso un messaggio comunicativo. Anzi è il principale, pervasivo, profondamente pervasivo, messaggio. Agisce in profondità, ma nella profondità della superficie perché condiziona non soltanto il “come” viene veicolato il messaggio ma, vincolando il significato alla procedura di trasmissione, agisce sulla mente umana, frammentandone le competenze, riducendone i tempi di concentrazione, dissipando la memoria semantica nei rivoli di quella procedurale. Il contenuto semantico è diventato qualcosa di convenzionale, come le icone delle App o la sequenza di passaggi che si deve fare per comunicare con gli altri attraverso esse.

L’annullamento del tempo e dello spazio nell’economia del pensiero ha portato al vantaggio di avere un’infinità di informazioni sempre a disposizione, ma a quale costo? Al prezzo di abbassare la soglia di attenzione, di banalizzare il pensiero. Prelevato l’ordine delle associazioni mentali, ci riduciamo a collegare pensieri senza un criterio o, meglio, attraverso un criterio puramente procedurale, la cui logica ci resta nascosta.

La deduzione è stata progressivamente sostituita dalla convenzionalità dei contenitori informatici, soprattutto dei social, e dalla casualità dei contenuti semantici. La nostra memoria invece funziona tramite legami associativi che sono sempre anche logici, se non necessariamente di una logica deduttivo/matematica almeno sempre di una analogico/iconica. Altrimenti detto: alle associazioni mentali è, o almeno dovrebbe, esser sempre presupposto uno o più criteri, scissi, indipendenti da ciò che associano. E se scissi e indipendenti non sono, almeno che non siano da quei legami dipendenti e derivati.

Consideriamo due aspetti della memoria umana: quello procedurale e quello semantico. La memoria procedurale è fondamentale in quanto ogni cosa che facciamo può esser non ridotta, ma ricondotta a una procedura. L’algoritmo è, fondamentalmente, una descrizione matematica di una procedura propria del pensiero umano. Scontato quindi che le nostre azioni e i nostri pensieri si attuino attraverso procedure, possiamo dunque asserire che il nostro pensiero è e deve essere esclusivamente o soprattutto procedurale? Se così fosse saremmo soltanto macchine e, cercare di ridurci ad esse, è la frontiera della democrazia e del potere nel nuovo millennio. La nostra risposta è e deve essere: assolutamente NO! Le procedure sono sempre condivise e, quindi, tolgono “ossigeno” alla volontà individuale. Le procedure informatiche non sono fatte di clorofilla. I social non sono fatti di clorofilla e, quindi, non possono portare ossigeno al pensiero, almeno non direttamente. Il dominio dei significati sta cedendo terreno a quello della memoria procedurale. Come esprimiamo giudizi? Attraverso le conoscenze pregresse sul soggetto che intendiamo, appunto, giudicare. Più conoscenze abbiamo su un argomento, maggiori sono le probabilità che il nostro giudizio sia “centrato”. Ma se, quando dobbiamo farci un’opinione, ci basiamo su una ricerca fatta su Internet e soltanto su quella, le fondamenta su cui basiamo il nostro giudizio saranno molto povere. Faremo associazioni banali tra pochi elementi. La memoria semantica va esercitata, cioè si deve sempre studiare e riflettere per aumentare il bagaglio di conoscenze personali, soggettive. Internet invece ci spinge nella direzione opposta: tende a ridurre la nostra memoria semantica (tanto le informazioni sono sempre lì, a disposizione di tutti), a vantaggio di quella procedurale (se vuoi qualcosa devi seguire una procedura specifica). Ciò però rappresenta un passo indietro notevole nel percorso evolutivo della specie! Questo deve esser chiaro: la differenza fondamentale tra l’homo sapiens e le scimmie è a livello di memoria semantica, perché in quella procedurale i primati sono molto più bravi di noi. Ebbene sì, gli scimpanzé pigiano bottoni sui touchscreen meglio di noi! È la memoria semantica, cioè la quantità di conoscenze, di concetti, idee, nozioni che fa la differenza tra noi e loro, non quella procedurale. Una persona con poche conoscenze, quando dovrà esprimersi su una qualunque questione potrà certo fare una ricerca su Internet e leggere i risultati del motore di ricerca. Potrà andare anche oltre Wikipedia. Ma il suo giudizio, la sua scelta sono, e resteranno, vincolate alla sua memoria semantica, cioè alla quantità e qualità di conoscenze pregresse accumulate negli anni precedenti. Se ha letto e compreso tante cose il suo giudizio sarà mirato, saliente, motivato, approfondito. Se invece il soggetto giudicante possederà scarse conoscenze individuali, studi frettolosi e superficiali, riterrà che le informazioni ricevute da qualche pagina web siano più che sufficienti per formarsi un giudizio adeguato. Ma si sbaglierà grossolanamente. Inoltre nel giudizio entrano sempre in gioco tutte le nostre capacità e conoscenze, entrano in gioco anche inconsapevolmente, e se sono povere, povero sarà anche il nostro giudizio. Il bagaglio di conoscenze acquisite fa sentire il suo peso anche quando il peso non lo senti e il bagaglio non lo vedi. È impossibile ricordarsi tutto ciò che abbiamo imparato in passato ma, in un modo e nell’altro, tutto ciò fa parte di noi, ragion per cui quando noi andiamo a esprimere un giudizio su qualsiasi cosa anche quella parte di noi così importante, così pesante e così nascosta, si manifesta nel giudizio, senza che ne siamo consapevoli, senza che possiamo trovare traccia, senza che se ne possa identificare l’origine. Ma quella traccia, quel peso, quel sapere invisibile, impalpabile, non identificabile c’è, c’è eccome e determina il nostro giudizio, le nostre scelte, i nostri pensieri. Il giudizio non è mai la scelta tra i pochi e scarni contenuti della memoria di lavoro, bensì il precipitato chimico (in termini metaforici ovviamente!) della memoria semantica, una miscela pesante che si è formata e sedimentata negli anni. Il pensiero è la rete di connessioni tra tutte le nostre conoscenze, è quindi ognuna di esse e tutti i legami tra esse che abbiamo stabilito. Nessun motore di ricerca può sostituirla.

L’intelligenza umana è come un grande appezzamento di terra: c’è il campo della memoria, quello della logica, quello dell’immaginazione e così via. Oggi il contadino sta togliendo spazio al campo della memoria semantica a favore di quello della memoria procedurale; ma nel campo della memoria procedurale i raccolti sono sempre più poveri, a meno che non lo si coltivi a noccioline. In tal caso però, si farà un favore soltanto alle scimmie che non tireranno mai l’aratro. Il campo della memoria procedurale dovrebbe essere sempre coltivato a erba medica per fare la biada da dare agli animali da traino con cui arare il campo dei significati delle cose, là dove crescono i dolci frutti del giudizio consapevole e ponderato. A questo dovrebbe servire il campo della memoria procedurale. Se il contadino spera di sfamare la famiglia pagando in algoritmi, finirà per mangiar biada e dovrà mettersi il giogo al collo per tirare l’aratro al posto dei buoi. Sia chiaro, tornare a un bucolico mondo romantico fatto di fantasie e immaginazione – che non è mai esistito – non solo non è la soluzione ma rappresenta semplicemente l’altro piatto della bilancia, quello che fa stare tutto in piedi, in un equilibrio però in cui, come da sempre accade, i molti cedono “il più” ai pochi. Ma deve esser altrettanto chiaro che Internet e i social non producono idee verdi con cui ossigenare il pensiero, non lo hanno mai fatto e non lo potranno mai fare. Il modello della mente come computer va definitivamente sostituito, e va fatto il prima possibile con uno fotosintetico e clorofilliano che trasformi lo studio e l’impegno personale in ossigeno per la mente.