Provo ad analizzare alcuni dei termini che la psichiatria contemporanea utilizza per affibbiare le diagnosi più comuni.

Parto dall'analisi etimologica del termine «depresso»: formato dal prefisso «de», particella intonsiva (cioè che aggiunge forza al parlato) + il participio passato del verbo «premere, pigiare, schiacciare, abbattere». Letteralmente, «depresso» significa qualcosa o qualcuno che è (stato) molto schiacciato, abbassato, abbattuto. Secondo i parametri psichiatrici, significa una persona che per un periodo di tempo abbastanza lungo «vive episodi di umore depresso accompagnati principalmente da una bassa autostima e perdita di interesse o piacere nelle attività normalmente piacevoli».

La presunta diagnosi non connota la persona in base a una serie di sintomi inequivocabilmente invalidanti, ma in base alla sua collocazione (la condizione di essere «al di sotto», richiamata espressamente dai termini di umore «depresso», «bassa» autostima, «perdita» di interesse e piacere) rispetto a una linea di demarcazione, ovvero rispetto alla soglia della cosiddetta e non altrimenti specificata «normalità».

La presunta diagnosi non dice nulla sul vissuto, sullo stato di salute (la pressoché totalità delle diagnosi psichiatriche viene rilasciata senza sottoporre i pazienti ad alcun genere di esame) e sull'aspetto umano della persona, ma soltanto sulle derive del vissuto del paziente, sulla sua ipoattività neuronale, sul suo essere schiacciato al di sotto del limite «normale». Bateson, da qualche parte in qualche suo saggio, sostiene che un professore autoritario che sfoglia il registro con estenuante lentezza mentre mormora, Adesso interroghiamo..., in realtà non sta comunicando agli studenti la sua intenzione di incominciare le interrogazioni. Certo, a livello puramente verbale, letterale, sta anche dicendo quello; ma il vero messaggio che vuol far passare ai suoi studenti in realtà è questo, Potere, potere, potere!

Allo stesso modo la diagnosi di depressione - che non è una diagnosi e, se stiamo a vedere, non è neppure una definizione - è soltanto un abborracciato giro di parole per imporre categoricamente uno stato di cose, e cioè che esisterebbe una soglia umorale e comportamentale normalmente ritenuta accettabile e valida, al di sotto della quale si diventerebbe automaticamente dei «depressi». Pura tautologia.

Gli psichiatri stessi ammettono di non saper definire un «disturbo mentale». Nel DSM-II1 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), a proposito della schizofrenia, si afferma che «pur avendo tentato, il Comitato [APA2] non è riuscito a raggiungere un accordo sulla natura di questo disturbo; è riuscito solo a concordare sul suo nome».

Pura operazione linguistica.

Nel DSM-III, l'APA afferma che non c'è alcuna definizione soddisfacente che rappresenti precisi contorni del concetto di «disturbo mentale». Per la maggior parte dei disturbi inclusi nel DSM-III sostiene che «l’eziologia [la causa] resta sconosciuta. Sono state avanzate numerose teorie, non sempre convincenti, per spiegare come insorgono questi disturbi».

Nel DSM-IV il Comitato di psichiatri sostiene che il termine «disturbo mentale» continua a essere usato nel volume «perché non abbiamo trovato un valido sostituto».

Proseguo con la mia analisi. Prendiamo ora in considerazione il termine «maniaco», dalla sindrome maniaco-depressiva3.

«Mania», in greco, e nel più antico sanscrito, vuol dire letteralmente follia. La mania costituisce una fase del disturbo bipolare, che vede l'alternanza di fasi maniacali e fasi depressive. Mentre la depressione viene configurata come un errore per difetto, uno stato di ipoattività neuronale; la mania si configura come l'errore per eccesso, un'iperattività, un'ipereccitabilità rispetto alla normalità umorale e comportamentale. Anche in questo caso, tutto è stato ridotto alla sola dimensione del funzionamento neuronale, responsabile di un umore e di un comportamento al di sotto o al di sopra della soglia della normalità. L'essere umano nel suo vastissimo repertorio di idee, stati d'animo e sfumature emotive, intessuti dei più svariati vissuti e delle più diverse esperienze, è stato inquadrato soltanto in base a un paio di parametri, quelli del «più» e del «meno» (l'eccesso/il difetto) rispetto a una norma basata sull'attività neuronale (iperattività/ipoattività). Ma ci sono elettrodomestici più sofisticati! Altro che «più» e «meno», ci vuole mezz'ora per impostare decentemente un impianto di aerazione, però la psichiatria contemporanea vuole setacciare l'«umano» attraverso questo filtro grossolano che lo semplifica brutalmente e che non è in grado, di conseguenza, di coglierne la peculiare natura. È come se si classificassero i fiori soltanto in base al diametro della loro corolla, e si trascurassero i colori, le forme, le proporzioni, il contesto botanico in cui sono sorti, ecc. Nelle descrizioni psicopatologiche, la «mania» viene descritta come un eccesso rispetto alla normalità. La fase maniacale, apprendo da un volume psicodiagnostico, comporta «eccessivo ottimismo; iperattività e aumentata energia; diminuzione della fame e del sonno; idee grandiose; eccessiva autostima; flusso continuo di idee e iniziative, assenza di freni inibitori, tendenza a parlare molto più del solito», ecc. Ancora una volta, l'attenzione non è posta su una reale alterazione anatomopatologica, inoltre non si fa alcun riferimento alla sofferenza del presunto maniaco, né a quali sarebbero le modificazioni psicologiche e fisiologiche davvero invalidanti del «malato», ma soltanto a quella linea di normalità che bisognerebbe raggiungere e, al contempo, non sopravanzare. Mi viene in mente lo stretto canale visivo ritagliato da un paraocchi, o ancora una piccola striscia di terreno percorribile, simile alle piste e alle corsie di un percorso imposto. Chi vuole essere «normale» deve fare lo slalom tra questi paletti e limitazioni, ma il margine di libertà è ridotto a una misera strisciolina che serpeggia cautamente tra i fili spinati dell'eccesso e del difetto.

Ho provato ad astrarre dall'ambito medico-psichiatrico, e ho immaginato di trovarmi a leggere la diagnosi medica di «stato maniacale» in tutt'altro contesto, per esempio, nella sinossi di un romanzo. Ho immaginato di essere l'editor di una casa editrice che si trova davanti al profilo di un protagonista romanzesco descritto come un ottimista, anzi di più, presentato addirittura come mosso da un fervore entusiastico; un personaggio che si dedica a una gran quantità di progetti, dotato di una dose spropositata di energie, che non patisce la fame né il sonno - avrà pure il fisico, questo, viene da pensare. Un personaggio dalle idee grandiose, che tiene banco in ogni occasione, con una grande stima di sé – e come si potrebbe, date tali premesse, non averne? - la cui mente partorisce senza sosta nuove avventure e affascinanti iniziative - e a cosa gli servirebbero allora i freni inibitori? Ecco il quadro. Ho parafrasato e appena riformulato la descrizione medica, lasciando intatta la sostanza, e dal quadro clinico di un «bipolare» in fase maniacale si è passati al profilo di un supereroe. Sul serio, non è uno scherzo, non si tratta di una provocazione. Se si vanno a consultare le caratteristiche dell'Eroe, - da quelle tradizionali delineate magistralmente da Bachtin4 nella sua analisi delle funzioni della fiaba, alla moderna nozione di Supereroe e superpoteri, fino al contemporaneo concetto di «performance» - si vedrà come le qualità del «maniaco» sopra elencate coincidano perfettamente con quelle dell'Eroe. Si scoprirebbe che Superman è un maniaco, e che se in un momento «no» facesse l'errore d'andarsi a lagnare da uno psichiatra, gli verrebbe immediatamente diagnosticato un disturbo bipolare.

Vediamo ora che cosa significa il termine «borderline», annoverato tra i disturbi della personalità: secondo i manuali diagnostici significa «al limite tra normalità e patologia, o al limite tra patologia e patologia».

D'accordo, se vogliamo essere scrupolosi e far riferimento a ciò che di inalterato, ciò che di costante resta nella vaga definizione patologica, il concetto di borderline allora significa «al limite tra». Oh, benissimo, i manuali diagnostici sono riusciti a medicalizzare, a patologizzare anche la dimensione avverbiale! La locuzione avverbiale che indica un luogo, il «trovarsi tra», l'«essere in mezzo a» è diventata una patologia, e chi «si trova tra», chi ha la sfortuna di indugiare «al limite di» può essere diagnosticato e curato in qualità di borderline.

Siamo daccapo. Border, che letteralmente significa «ai confini, ai limiti, nei pressi» + line, che significa «la linea, il limite». Ancora una volta il criterio diagnostico è stato la linea di demarcazione, il confine che separa la presunta normalità dalla presunta anormalità, da imputarsi alla presunta malattia mentale.

Potrei continuare ad analizzare altri termini utilizzati dal gergo medico, ma quello che vorrei per il momento sottolineare sono le tendenze della diagnostica psichiatrica contemporanea le quali: - non fanno alcun riferimento alle alterazioni anatomo-patologiche, in assenza delle quali non si può in alcun modo parlare, men che meno diagnosticare una malattia mentale;
- tendono a spogliare l'individuo non solo delle sue connotazioni emotive, ma anche del suo vissuto e dei suoi valori.

Parole come triste, felice, angosciato, orgoglioso, solitario, ecc., recano con sé una componente emozionale che si riferisce a un'esperienza umana completa, compresi i valori e i precetti in cui un uomo crede. Al contrario, i termini finora analizzati, fanno riferimento a un paradigma unicamente funzionale: designano il disturbo non tanto come sofferenza vissuta rispetto a un'emozione o a un valore contravvenuto, ma soltanto come carenza o eccesso neurofisiologico rispetto a un'astratta e arbitraria normalità.

(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice)

1 Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla DSM derivante dall'originario titolo dell'edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nell'ambito della ricerca. Nel corso degli anni il manuale, arrivato ora alla V edizione, è stato redatto tenendo in considerazione l'attuale sviluppo e i risultati della ricerca psicologica e psichiatrica in numerosi campi, modificando e introducendo nuove definizioni di disturbi mentali: la sua ultima edizione classifica un numero di disturbi mentali pari a tre volte quello della prima edizione.
2 L'American Psychiatric Association (APA) è un'organizzazione professionale di psichiatri che cura diverse riviste accademiche e opere, come pure il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM). Il DSM codifica le condizioni psichiatriche generalmente accettate e le linee guida per diagnosticare tali condizioni.
3 Sindrome maniaco-depressiva: o psicosi maniaco-depressiva, è il termine generico con cui un tempo si indicavano i quadri clinici che ora va di moda chiamare disturbi dello «spettro bipolare».
4 M.M. Bachtin, filosofo e critico letterario russo del secolo scorso. A questo proposito si ricorda il bellissimo L'autore e l'eroe. Teoria letteraria e scienze umane (1979), edizione italiana a cura di Clara Strada Janovič, Torino: Einaudi, 1988.