La scelta di contatto con la natura, anche nelle sue estreme condizioni, con lo scopo della conoscenza e dell’approfondimento che tali condizioni possono avere ed hanno sugli equilibri del pianeta. E il piacere difficilmente descrivibile di trovarsi in un certo senso in quella che una volta era definita dai popoli del Nord, l’ultima Thule, un lontano paradiso, una mitica destinazione. Potrebbe essere questa la descrizione, insieme al diuturno impegno tra mille problematiche per la ricerca scientifica, della scelta fatta da Marco Casula, tecnico dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISP).

La sua base è quella del CNR intitolata al Dirigibile Italia a Ny-Alesund, nell’arcipelago delle Svalbard, nel Mar Glaciale Artico. In mezzo ai ghiacci del Polo, per così dire, quei ghiacci una volta considerati eterni e che il riscaldamento climatico sta mettendo in forte stress con conseguenze non certo positive per lo stesso equilibrio ambientale della Terra.

Ed ora, che quella stessa Terra è invasa dalla pandemia del Coronavirus, si trova nell’unica zona del pianeta insieme all’Antartide, avvolta dai ghiacci ma libera dal virus. Una condizione certamente particolare per chi per ragioni oggettive già ha una vita condizionata da precisi comportamenti e che tuttavia ancorché isolato è per così dire uno dei pochi umani liberi in questa drammatica stagione che segna l’umanità. Una posizione che gli consente di guardare con apprensione e preoccupazione a quanto accade alcune linee di latitudine più in basso, ma con la sicurezza di non correre pericoli indotti dall’epidemia mondiale. Un privilegio in un certo senso, ma anche una sentenza di “quarantena” dovuta all’impossibilità di rientrare.

Casula è partito dall'Italia il 1° gennaio 2020 per la stazione di destinazione che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gestisce nelle Isole Svalbard, a Ny-Alesund, una cittadina a uso esclusivo di ricerca scientifica che si trova a circa 1000 km dal Polo Nord. L’iniziale previsione di rientro era legata alla sua missione e prestabilita almeno a grandi linee considerando la complessità di muoversi da quelle estreme condizioni fisiche e logistiche. Oggi, seppur di buon grado ha dovuto accettare il prolungamento della permanenza. Una situazione, sottolinea, che nessuno poteva anche soltanto immaginare solo qualche settimana prima.

Per chi lavora nell’Artico, osserva Casula, si deve partire dal presupposto della massima flessibilità in missione, sapendo che potrebbero esserci imprevisti di qualunque genere che portano a cambiare i programmi iniziali come, ad esempio, nel caso che un collega non stia bene e non possa raggiungere la base per dare il cambio come avviene nelle campagne di ricerca scientifica.

Così di giorno in giorno, di settimana in settimana, la possibilità di rientro si è spostata prima all’inizio di marzo, poi ai primi di aprile per motivi tecnici/organizzativi. Solo che su tutto questo ruolino di marcia ha fatto la sua comparsa a gamba tesa il virus e così sarà proprio l’andamento della pandemia e le misure stabilite dal Governo italiano e da quello degli altri Paesi a decidere modalità e momento per far ritorno in Italia. Nessun collega, infatti, può eludere il lockdown e l’assenza di trasporti dovuta alla quarantena mondiale rende impossibile gli spostamenti.

Per il ricercatore, allora, giocoforza, l’unica “scelta” possibile è rimanere lì, tra i ghiacci proseguendo le sue missioni, con la mente e il cuore al proprio Paese, avendo la responsabilità di portare avanti il suo lavoro e non interrompere la serie climatica di dati che l’Italia sta raccogliendo in quelle gelide lande da oltre 10 anni.

Ma con quale spirito si vive allora da “recluso tra i ghiacci” ma lontano dal virus? “Ho scelto io questa condizione: data la tipologia della ricerca polare, vivere isolati non è inconsueto, dice Marco. E poi la mia attuale condizione di isolamento non è proprio la stessa che vivono gli italiani e i cittadini di tanti Paesi: io posso uscire, godermi questi ambienti unici e magnifici, avere contatti umani con i colleghi delle altre stazioni di ricerca internazionali, anzi ho tutto lo spazio che voglio a disposizione e credo che abbiano molte più difficoltà le persone che si trovano costrette a rimanere chiuse in casa loro, per non dire di coloro che sono in quarantena o ricoverati”. Ecco perché tutto sommato ritiene di essere in una posizione privilegiata in cui la dimensione internazionale a contatto con il personale scientifico di altre nazioni nelle basi “vicine” induce a guardare la situazione italiana “nel contesto di quella dei Paesi delle persone che incontro e dalle quali ho informazioni di prima mano su come vivono il Coronavirus le altre nazioni”. Insomma, solitudine organizzata e libertà di movimento e di incontro che il resto dell’umanità fatica ancora ad immaginare di poter nuovamente vivere, costretta e condizionata per ragioni di sicurezza sanitaria.

Quello che sostiene il nostro ricercatore, peraltro è sintetizzato nelle sue stesse parole: “Trovo comunque sia fondamentale avere quello che io chiamo un buon abito mentale. Sicuramente fare una cosa che si ama, come nel mio caso, alleggerisce il peso della lontananza e della solitudine, anzi sto vivendo questa situazione come un allenamento per una prossima missione in Antartide, che mi piacerebbe poter fare. E, comunque, anche così a distanza, è possibile rimanere in costante contatto con la famiglia, gli amici, attraverso gli strumenti della rete che nelle condizioni che tutti viviamo manifesta il suo lato positivo di utilizzo facendoci stare vicini pur essendo a migliaia di chilometri di distanza”.

La particolare condizione che Casula sta vivendo è anche quella di essere il solo italiano tra i 30 ricercatori presenti a Ny-Alesund, una piccola comunità, una sorta di testimonianza dell’umanità, in questo momento particolare più unita che mai. E poi, sottolinea, non è che vi sia poi tanto tempo da perdere o per pensare, perché dal punto di vista lavorativo insieme ai colleghi di altre nazionalità si collabora per portare avanti le rispettive attività di ricerca a lungo termine e, dato il numero ridotto di presenti, non è infrequente, finito il proprio lavoro, aiutare gli altri.

“Ci sentiamo molto uniti anche dal punto di vista umano, c'è davvero tanto calore, il primo con cui ho stretto rapporti è stato proprio un ricercatore cinese. In questa cittadina, che per me ormai è una sorta di famiglia, nessuno è straniero e i rapporti vanno oltre le difficoltà che alle volte si possono incontrare, come quelle linguistiche. Tutto sommato, non nego che alle volte un momento di tranquillità da solo me lo prendo volentieri” confessa Marco.

Se c’è una lezione da trarre da questa drammatica prova per l’umanità, vista da queste lontane latitudini, è quella dell’opportunità/necessità di rafforzare ulteriormente la cooperazione scientifica, logistica e operativa tra tutti i Paesi che operano a Ny-Alesund. Una lezione aggiunge “che mi sembra sia da cogliere e mettere in pratica nel futuro, anche quando questa emergenza sarà finalmente superata. Qui alle Svalbard e in generale, nel mondo”.

Qual è allora questo lavoro che si svolge tra i ghiacci? Per Casula l’attività principale riguarda il campionamento di particolato atmosferico e di neve superficiale; in pratica consiste nel gestire gli strumenti che raccolgono il particolato su filtri che poi verranno analizzati in laboratorio in Italia. Altri strumenti analizzano invece le caratteristiche delle particelle in tempo reale, ma vanno comunque controllati periodicamente. Per quanto riguarda la neve, ogni giorno avviene la raccolta di campioni nei primi centimetri del manto. Dopo la raccolta, la pesatura, la catalogazione e dopo un primo processamento, il completo congelamento, in attesa che vengano spediti anch’essi per essere analizzati.

Queste attività, oltre a permettere la caratterizzazione chimico/fisica del particolato atmosferico e quindi l’identificazione delle sue sorgenti, permette anche di stimare qual è l’effetto di deposizione del particolato stesso causato dalla precipitazione nevosa. Siamo in pratica in un punto nevralgico di conoscenza con informazioni costanti e puntuali utili allo studio dei processi e dei cambiamenti climatici in corso e dei quali anche a queste remote regioni artiche si vedono con sempre maggiore chiarezza gli effetti drammatici.

Come se non bastasse, ci dice ancora Casula, “mi occupo poi di risolvere i problemi che si possono verificare nella strumentazione installata qui da diversi istituti di ricerca italiani, dagli strumenti meteorologici ai contatori di raggi cosmici”; un’attività di controllo e di manutenzione e riparazione se necessario.

Dunque, un’esperienza già di per sé particolare che oggi la pandemia sta rendendo ancor più interessante, costringendo i ricercatori di tutte le nazioni presenti a rafforzare quella comunità di lavoro e di intenti pur nelle differenze di programmi e ricerche. Tutti lontani dal proprio Paese e nella difficoltà di immaginare il ritorno, ma accomunati dalla sensazione precisa che la cooperazione sia per l’umanità uno strumento prezioso e un elemento di forza di fronte alle avversità e alle emergenze.

Dalle parole di Marco Casula, insomma, traspare un messaggio di valore comune: non si esce dalla pandemia da soli ma con lo sforzo di tutti, con l’aiuto di tutti, senza lasciare nessuno indietro, senza egoismi, particolarismi e chiusure che prima che tecniche rischiano di essere mentali. L’emergenza virus, il rischio tragico al quale sono esposti donne e uomini, di ogni luogo ed età, non si supera senza il sostegno reciproco.

Poi, una volta fuori dal tunnel, sarà anche necessario ricostruire, capire, comprendere, con tutti i dati alla mano che cosa è successo e perché è successo in questo modo devastante. Con la stessa certosina pazienza e precisione con la quale Marco Casula e i suoi colleghi stanno continuando la propria missione!