Un punto di vista molto interessante alla questione della criminalità e della colpevolezza è fornito da Ulrich, il protagonista del romanzo L'uomo senza qualità di Robert Musil, secondo cui il criminale non sarebbe l'unico e vero colpevole, ma sarebbe il punto di minor resistenza a certe tensioni sociali. Sarebbe il punto dove il tessuto sociale cede.

In questa stessa ottica, traslando il pensiero di Musil, il paziente psichiatrico allora non sarebbe l'unico e vero malato mentale, ma il punto di minor resistenza a certe tensioni psichiche. Il punto dove il tessuto psichico cede e attraverso il quale gli attriti psichici accumulati collettivamente riescono a sforare e a emergere.

L'istituzione psichiatrica e la cultura dominante pongono l'accento sia sulla debolezza, sia sulla passività di chi soffre di un disturbo psichiatrico (che non a caso viene designato “paziente”). Ma il paziente psichiatrico non è soltanto l'anello debole in cui si spezza una catena, è anche e soprattutto un elemento di forza, in quanto ogni “malato” ha la forza fisiologica di sentire, di percepire che qualcosa non sta andando per il verso giusto. In questo senso, ogni malato non è soltanto un elemento passivo, qualcuno che sta soffrendo; ma è anche e soprattutto un elemento attivo, in quanto svolge la funzione di spia, testimonia un'emergenza e, sebbene suo malgrado, denuncia un disturbo collettivo attraverso il proprio vissuto.

Quattro anni fa un colombiano di 20 anni, in pieno giorno, ha sparato addosso a tre ragazzi marocchini davanti alla pasticceria primo-novecentesca Bonadeo di Torino. Bilancio: un morto e due feriti gravi.

Prima che lo trasferissero nella Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) di Torino, gli ho domandato perché l'avesse fatto.
-Mi davano fastidio, questa la risposta del giovane.
- E come mai ti davano fastidio?
- Erano miei coetanei.

La storia di questo ragazzo me ne fa venire in mente un'altra, che ho letto in un saggio di Jung, quella di un uomo che si era comprato un coltello senza saperne il motivo. Quell'uomo alla fine accoltella la moglie, che secondo Jung era la vera colpevole, perché considerava gli altri come il diavolo in persona e se stessa come una santa. Secondo Jung, la donna trasmise al marito il male presente nella sua natura. Lo persuadeva che lui era cattivo, mentre lei era buona, e instillò l'istinto criminale nel suo inconscio.

Quanto più è cattiva una persona - sostiene Jung - tanto più cerca di indurre in altri la depravazione che non vuole mostrare al mondo. L'idea criminale venne instillata nell'uomo inconsciamente come un'abreazione di istinti malvagi probabilmente ispirati da sua moglie. L'uomo col coltello era tutto sommato una persona onesta, così tira le fila Jung. E io mi trovo d'accordo con lui. Chi è dunque il vero criminale? La moglie o lui?

Troppo facile dire lui. Ma ancor più facile dire la moglie.

I “malati”, i pazienti psichiatrici, ma anche i criminali e ogni forma di reietti non sono una categoria di persone da tutelare, da proteggere e da recuperare con condiscendenza paternalistica in quanto elementi deboli, come il falso umanismo vorrebbe far credere; ma sono persone da capire, da non sottovalutare e da analizzare in quanto elementi “forti”, poiché insieme vanno a costituire un importante e utilissimo organo sociale. Essi svolgono l'imprescindibile funzione di allarme, di emergenza, di denuncia bio-fisiologica di un corpo collettivo, la società. Sono una specie di organo-filtro, come il fegato, i reni, i polmoni, soggetti ad ammalarsi e deteriorarsi per primi perché in costante e diretto contatto con lo “scarto”, con ciò che è “nocivo”, con ciò che va eliminato e “spurgato” dall'organismo.

I “malati” sono i catalizzatori dell'ombra – come direbbe Jung – ovvero coloro che processano il rimosso, che smistano l'elemento sfavorevole, che trattano il polo negativo. Sono naturalmente i più intossicati, i più sovraccarichi, perché sono i primi a dover digerire il “male”.

Questi miei scritti, o appunti, o brevi saggi, sono un modo per testimoniare della loro utilità sociale, della loro importanza fisiologica per la struttura collettiva; un modo per ribadire la loro attività e la loro forza, a dispetto della fragilità e dell'eccezionale sensibilità intrinseche alla loro stessa natura. Queste mie pagine sono un modo per essere vicina, per essere dalla parte di chi - sebbene suo malgrado e forse inconsciamente - si carica di questo grande peso psicofisiologico, di questa responsabilità morale.

(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice)