È l'investigatore della storia che interroga gli scheletri. Nessuno più di lui ha conosciuto così da vicino papi e imperatori, santi e avventurieri, musicisti, pittori, poeti, marinai e atleti. E ognuno gli ha raccontato la storia della sua vita, le sue abitudini, il suo mondo. Scheletri, ossa, crani, di quattromila uomini, famosi o sconosciuti hanno parlato come si farebbe con un confessore. Alcuni di loro non erano ancora neanche uomini come noi, ma appartenevano a quella meravigliosa fase di evoluzione approdata alla nascita dei nostri antichi precursori. Come l'uomo di Ceprano, la cui forte capacità cranica lo rende simile ad altri ominidi posteriori ritrovati in Africa, ominidi dai quali si ritiene derivi l'Homo sapiens. “Quel 'signore' di 900mila anni fa scoperto nella provincia di Frosinone, appartiene alla linea evolutiva che ha portato all'umanità attuale, ma non riuscì ad adattarsi ad un primo tentativo di colonizzazione dell'emisfero settentrionale”, racconta il professor Francesco Mallegni, oggi direttore del Museo Archeologico e dell'Uomo Blanc di Viareggio e per anni docente di Paleoantropologia all'università di Pisa, con incarichi negli atenei di Palermo (distaccamento di Agrigento), Siena e alla prestigiosa Scuola Archeologica Italiana di Atene.

Così, postulando l'esistenza di una nuova specie umana, quella dell'Homo cepranensis, ha aggiunto insieme nuovi interrogativi e nuove informazioni sulla nostra storia lontana. Tra le migliaia di scheletri passati dalle sue mani ci sono anche un centinaio di abitanti di Leptis Magna, una delle principali e influenti città romane dell'Africa, sulle coste dell'attuale Libia, ingrandita e abbellita dall'imperatore Settimio Severo, i cui resti imponenti - dal teatro, ai templi, al mercato - ci restituiscono l'idea dello sfarzo e dell'imponenza di un agglomerato urbano che forse fu secondo soltanto a Roma.

Gli uomini che vivevano in quelle strade ancora intatte non erano solo autoctoni, ma arrivavano dalle regioni orientali e subsahariane dell'Africa, avevano alimentazioni diverse e diversi modi di sepoltura e di rituali legati alla vita e alla morte. Il loro “incontro” con l'antropologo ha permesso di popolare ancora una città “salvata” dalla sabbia del deserto e fortunatamente rimasta indenne nelle vicende storiche degli ultimi anni. Tempi migliori potranno permetterci di ritrovarla e conoscerla meglio.

E poi, nell'universo del professor Mallegni, ci sono i grandi della Storia, da Giotto a Mantegna, da Sant'Antonio a San Ranieri, da Boccherini a Dante e Pico della Mirandola. Insieme a molti altri. Nessuno ha taciuto, nessuno ha mentito. Non poteva. Perché lo scheletro è un archivio biologico, dove restano impressi i segni di ciò che avviene durante la vita. A chi riesce a farlo parlare racconta usi, costumi, fatti, avvenimenti più o meno violenti, narra di malattie e riferisce le cause di morte. È una miniera di informazioni che permette di scoprire eventi rimasti sepolti nei secoli oppure di confermare tradizioni, storie, persino aneddoti tramandati da biografi o poeti, di cui non esiste alcuna prova certa.

Professor Mallegni, ci faccia un esempio.

Parliamo del Conte Ugolino della Gherardesca, quel “signore” pisano accusato di aver tradito la sua città e per questo rinchiuso dai suoi concittadini in una torre e lasciato morire di fame. Secondo la leggenda tramandata da Dante nella Divina Commedia, il conte avrebbe mangiato il nipotino, imprigionato con lui, i suoi due figli e un altro nipote. Lo scheletro conservato nella chiesa di San Francesco a Pisa ci dice invece che il conte era anziano e non aveva denti: quindi non poteva masticare. Non solo, ma il cosiddetto nipotino non era affatto un bambino, come si pensava, bensì un ragazzo di 18 anni.

Come si è arrivati a stabilire la parentela tra i 5 scheletri contenuti nell’urna?

Ci ha aiutati anche l'esame del DNA. La lapide riferiva che i resti contenuti nel sepolcro appartenevano al conte Ugolino e ai suoi familiari. In effetti nell'urna abbiamo ritrovato le ossa confuse appartenute a cinque diversi esseri umani, tutti di genere maschile. Il più anziano dei cinque è morto più o meno all'età di 70 anni, altre due persone avevano all'incirca 40 anni al momento del decesso, mentre i più giovani non superavano i 18-20 anni. L'esame del DNA mitocondriale ci ha dato la prova che i due uomini di mezza età erano figli della stessa madre. Abbiamo così avuto la ragionevole certezza che si trattava proprio del conte Ugolino, dei suoi due figli Gaddo e Uguccione e dei nipoti Anselmuccio e Nino.

Tutti morti di fame, come racconta la leggenda?

Tutti. Nelle loro ossa c'è infatti una forte presenza di magnesio, elemento prodotto in abbondanza da chi si ciba di carboidrati, come il pane. Da questo punto di vista, dunque, la storia del loro imprigionamento viene confermata perché racconta che i prigionieri vennero tenuti a pane e acqua e morirono quando venne loro tolta anche l'acqua.

Dei molti personaggi che ha conosciuto, qual è quello che l'ha colpita di più?

Sicuramente l'imperatore Arrigo VII, non tanto per la sua vita, quanto, piuttosto, per le vicende legate alla sua morte. Arrigo, sepolto nel Duomo di Pisa, come lui aveva chiesto, morì in seguito ad avvelenamento da arsenico, ma non fu ucciso. In realtà lui usava ogni giorno un unguento a base di arsenico come rimedio per curare una grossa piaga nera che gli si era formata ad uno dei ginocchi, conseguenza di una malattia della pelle, l'antrace, contratta probabilmente dal cavallo. Ho trovato tracce più consistenti di questo veleno sulle ossa del cranio, bollito separatamente rispetto al resto del corpo. L'arsenico, infatti, si addensa soprattutto nei capelli e, durante la bollitura, si è depositato su quelle ossa.

Bollitura?

Arrigo VII morì a 40 anni a Buonconvento e doveva essere trasportato in fretta a Pisa, dove voleva essere sepolto. Ma era estate, quindi faceva molto caldo. Così per trasportarlo separarono la testa dal resto del corpo e poi bollirono le due parti separatamente per otto ore. Era una pratica usuale a quei tempi per riportare i defunti importanti in patria. Sulle ossa dell'imperatore ho infatti ritrovato delle granulazioni superficiali, tipiche delle persone morte affogate, il cui corpo è rimasto a lungo nell'acqua. La leggenda racconta che fu bollito nel vino, per schermare l'odore della putrefazione. In realtà a noi è risultato che sia stata usata soltanto l'acqua.

C'è qualche personaggio che avrebbe tanto voluto “incontrare” e che invece non le hanno fatto conoscere?

San Francesco, perché è un santo stupendo che ha dato un senso alla povertà e al bene per gli altri. E anche Raffaello. Stravedo per la sua pittura, è semplicemente sublime. È morto molto giovane, dicono per le troppe donne. Se avessi potuto “parlarci” lo avrei scoperto. Per la verità anche Federico II, sepolto nel Duomo di Palermo, mi ha lasciato molta curiosità. Sopra i suoi resti era infatti depositato uno scheletro di una donna. La situazione era strana. Ma non mi hanno permesso di andare avanti.

Lei è cattolico e credente. Come concilia la sua fede religiosa con la ricerca scientifica?

Francamente non ho bisogno di conciliare i due aspetti. Nella natura e nelle sue manifestazioni vedo una perfezione divina, un equilibrio che non posso pensare sia dovuto al caso.

Ma siamo ormai certi - e lei più di noi - che l'uomo è collegato alle scimmie e non al giardino dell'Eden?

Certo, l'uomo è collegato alle scimmie africane. Ma perché solo in Africa è avvenuta la mutazione? Anche i cani si sono evoluti dai lupi, ma sono rimasti animali. Perché? La mente umana è grandissima, ma non può capire tutto. Dio ha fatto in modo di creare una biologia che si trasforma. È con la mutazione che ha dato la possibilità di una marcia in più rispetto agli altri esseri viventi e li ha trasformati nel tempo attraverso incroci.

Esaminare le ossa di un santo ha per lei un significato particolare?

Non è dalle ossa che si deduce la santità: gli scheletri non sprigionano nessuna luce. Ci parlano della loro vita materiale, ad esempio, delle privazioni a cui si sottomisero o furono sottomessi, ma non certo quella spirituale.

Perché ha scelto di fare l'antropologo?

Perché la passione per la storia e per il passato è nata con me, fin da quando il maestro delle elementari raccontava a noi bambini la mitologia greca. Iscritto a Biologia mi innamorai subito di un corso che parlava dell'evoluzione umana. Certo, non ho mai trovato gli scheletri di Zeus o di Minerva: le loro “vite” erano sogni legati alla mia fantasia. Ma vedere da vicino come si è sviluppata la storia della nostra vita è stata una scoperta continua che non ha mai creato contraddizioni con la mia fede religiosa. Nessun pentimento: se potessi tornare indietro rifarei esattamente tutto quello che ho fatto.