Chi sa guarire sa anche uccidere.

Così giuravano e ribadivano i testimoni davanti all’inquisitore, condannando la guaritrice alle umiliazioni e alle torture del processo. Pesanti responsabilità gravavano su medichesse e levatrici, poiché avevano confidenza con le energie della natura e maneggiavano quei farmaci dall’ambigua valenza che potevano trasformarsi da medicamenti in veleni. Raccoglievano l’eredità, e al contempo l’antica condanna, di Circe e di Medea, le pharmakídes che custodivano i segreti divini delle erbe. Ne erano consapevoli i greci, quando attribuivano al termine phàrmakon una triplice valenza: farmaco, veleno, filtro magico. Perché medicina e magia rispondevano a principi comuni, governati dagli dèi. O forse le risorse vegetali erano esse stesse dèi. E così, nelle mani delle donne, la medicina è stata prima arte pagana e poi cristiana, trasformando i saperi ripudiati in pratiche sancite e santificate; questa medesima logica simbolica ha guidato per molto tempo anche il criterio di classificazione delle piante: diaboliche e stregone quelle derivate dalle ataviche tradizioni della magia popolare, sante quelle maneggiate da monache e badesse nei chiostri monastici. Di fatto, in uno scambio ininterrotto fra magico e religioso, streghe e sante hanno condiviso consuetudini e gesti taumaturgici, ma seguendo questa dialettica dualistica, l’erbario della taumaturgia verde si registrava sul contrappunto botanico di un canone a due voci.

Pianta stregona era l’aconito, velenoso e paralizzante. Ha natura infera, generato dalla bava del cane Cerbero quando risalì dalle profondità del Tartaro e vide per la prima volta, con repulsione, la luce. Le antiche maghe della Tessaglia lo strappavano dalle rocce, le malefiche lo sfregano sul corpo per volare. Erba stregata era la belladonna, che nel nome onora l’antico potere di sacerdotesse e maliarde. Poiché erano consapevoli della sua natura letale, la chiamarono Atropa come la più crudele delle tre Parche, quella che recide con la forbice il filo della vita.

Santa era invece l’artemisia, mater herbarum onorata dalla dea Artemide, che servendosene facilitava alle donne un parto felice, regolava il sangue del mestruo e dava sollievo ai dolori che esso provocava: fu lei a insegnare queste arti a levatrici e medichesse. Virtuosa era la betonica, erba dei dodici dèi, capace di guarire quarantasette malattie, di giovare alla salute muliebre e di curare i mali del corpo e dello spirito: per questo richiedeva attenti rituali e andava raccolta invocando Esculapio e Chirone. La guaritrice ne portava sempre un po’ con sé: cura le ferite e le febbri ed è un efficace purgativo. “Ha più virtù della betonica”, si usava dire, volendo lodare ciò che porta salute.

Infero era il colchico, che cresceva nelle terre della potente Medea. Si diceva che fosse nato dalle gocce del sangue del titano Prometeo, versato durante il famoso supplizio: la maga lo aveva raccolto dal terreno imbevuto di prodigi per comporne un unguento che rendesse il corpo del suo amante insensibile alla spada e alle fiamme ardenti. Diabolico era lo stramonio, che fa rima con demonio, e altrettanto il giusquiamo, che le streghe maneggiano per evocare visioni e per ungere i bastoni delle loro scope, animandoli nel volo del sabba. Forse fu Circe la prima a usarlo, quando trasformò i marinai di Odisseo in maiali, animali che le dee infere gradiscono come offerta.

Buona e materna era la malva, che i latini chiamavano omnimorbia e il grande Pitagora definiva “messaggera della simpatia tra le cose celesti e terrene”. Era sacra a Demetra, che insegnò a Eracle a ricavarne alimenti portentosi capaci di liberare dalla fame e dalla sete. Divina era anche la verbena amata da Venere, che rallegrava le nozze e invitava le spose all’amore, ma che nelle mani di una donna di magia poteva togliere il senno all’amato. Magico era poi il sambuco, quando ospitava fra le sue fronde creature fatate. Il flauto ricavato da un suo ramo produce musica che protegge dai sortilegi. Profetico era poi l’alloro, che annuncia gli eventi fatali: gettato sulle fiamme crepita e cadenza il ritmo della parola incantata.

Stregata era la ruta, di cui Medea conosceva ogni segreto. Cura il morso del serpente ed è un antidoto contro i veleni; con il suo malodore caccia gli spiriti, i diavoli e le streghe, e dunque è un talismano utile contro malocchio e sortilegi. Ancora, funesto era il caprifico, venefica la cicuta, infero il prezzemolo che provoca l’aborto. Mortifero il papavero, che porta visioni e induce a un sonno di morte. Ma dolce era la camomilla, che calma e consola, e consolatrice la madreselva, che agevola un parto veloce. Potente era l’iperico, che scaccia i diavoli e le streghe: cura piaghe e scottature e allontana la malinconia. Prodigioso il nero elleboro, che purga la mente dalla follia: purifica ed equilibra e va raccolto con devozione di liturgie appropriate. Ambivalente, infine, è la mandragora ben nota a Circe, afrodisiaca e fecondativa: ha fattezze umane e l’uomo può curare nella sua interezza. Ma guai a non tributarle i giusti onori: è vendicativa, strilla quando viene estirpata come il neonato quando si affaccia alla vita, e punisce con la morte il raccoglitore che non abbia eseguito giusti riti. Perché ogni pianta è posseduta da un demone, è amata da un dio o da una dea. E gli dèi, si sa, hanno potere di vita e morte.