Anche il medico entra a far parte della storia del paziente che continuerà il suo racconto a casa e magari ad altri medici, e poi in futuro ad altre persone. In questa storia futura anche noi, che oggi ascoltiamo questa persona, saremo personaggi e avremo una voce.

(M. Doglio, Janus 2002)

Nell’ambito medico il primo contatto con il mondo della narrazione avviene ben presto, nel momento in cui lo studente inizia a raccogliere l’anamnesi. Questa tende peraltro a considerare il paziente come oggetto della privilegiata attenzione della scienza medica.

Lo studente si accorge presto che il paziente racconta la propria malattia in modo molto diverso dalla descrizione dei testi. Abbonda in particolari, apparentemente inutili sul piano scientifico, esprime fantasiose descrizioni di contorno, non segue un ordine temporale, a volte recrimina su istituzioni e anche su singoli sanitari.

Lo studente sa che, al contrario, la Scienza gli chiede di distinguere i “veri” sintomi di malattia da quella sorta di rumore di fondo rappresentato dal paziente come persona. In particolare, deve individuare i “fattori di disturbo” per costruire, dal racconto disordinato, una storia, ordinata e quindi spesso artificiale, in grado di acquisire un senso nel linguaggio della nosografia ufficiale.

Fattori in grado di alterare l’ordine nel racconto di un paziente (da V. Cagli, 2004):

  • il paziente inizia la narrazione con ciò che ritiene più importante;
  • il paziente tende a dire per prima cosa ciò che teme di dimenticare;
  • il paziente è confuso, disorientato nelle sue coordinate temporali;
  • il paziente rinvia la menzione di contenuti a lui penosi.

Lo studente impara a porre domande standardizzate e ad ascoltare poco, anticipando l’atteggiamento che molto probabilmente manterrà quando, ormai laureato, sarà inserito nella realtà professionale. Nella realtà gli obiettivi di cura sono infatti in prevalenza quelli clinici e gli aspetti esistenziali, i bisogni, le aspettative e i desideri delle persone tendono a rimanere marginali.

Nell’ambio delle cure primarie, che da sempre rivendicano l’orientamento alla persona, il Medico di Medicina Generale (MMG) impara invece presto a utilizzare non la classica anamnesi ma le storie, più pertinenti ad un contesto popolato di attori e di eventi in stretta interazione, di soggettività ed oggettività, emozioni e percezioni, memorie di percorsi insieme biologici e biografici.

L’approccio narrativo, usato anche come strumento di formazione e ricerca, fa infatti parte dello statuto epistemologico della Medicina Generale (MG), è un suo valore aggiunto, da custodire e utilizzare per ridefinire le priorità di valutazione della appropriatezza e della qualità delle cure.

La MG può essere per questo considerata la clinica delle storie, la disciplina dove viene maggiormente applicata la concettualizzazione di Rita Charon: “la pratica della medicina richiede una competenza narrativa”, cioè l’abilità a conoscere, interpretare e trattare le storie e le situazioni delle persone1.

La medicina narrativa digitale

Le nuove tecnologie digitali, che hanno così radicalmente cambiato la relazione tra il medico e l’assistito, possono contribuire a descrivere le nuove esigenze dei pazienti e dei medici e a fornire la possibilità di costruire un nuovo modo di interazione e di condivisione degli obiettivi di cura.

Il malato può aprirsi ad un mondo ricco di strumenti di narrazione, accessibili con un computer, uno smartphone o un tablet, dispositivi diffusi ovunque e in tutte le fasce di età. Come afferma Cristina Cenci, antropologa e antesignana del digitale applicato alla narrazione: “Il digitale mette il soggetto al centro di un crocevia narrativo e metaforico che egli stesso contribuisce ad alimentare”. Il digitale può dunque facilitare l’integrazione della medicina narrativa nella pratica clinica. Può mettere a disposizione un setting adeguato alla narrazione, uno spazio protetto sia per il paziente che per il medico, un luogo virtuale dove esistono solo il malato, la sua storia e il suo medico, uno spazio del soggetto e non dell’oggetto delle cure. Uno spazio che consente di evitare luoghi spesso carichi di emozioni, paure, aspettative ma al tempo stesso anonimi, spersonalizzati, seriali, “non luoghi” per dirla con M. Augè2. In particolare possono favorire la narrazione piattaforme digitali che integrano l’anamnesi medica con modalità più libere di raccolta delle emozioni, dei bisogni, del vissuto delle persone. Un esempio è la startup DNM-Digital Narrative Medicine, fondata da C. Cenci, ideatrice anche del Center for Digital Health Humanities.

La piattaforma consente di adattare il percorso narrativo alle esigenze specifiche dei pazienti e dei curanti. Accessibile online solo su invito, può coinvolgere malati e caregiver che vengono invitati a raccontare la loro storia. Il paziente può narrare liberamente ma la piattaforma offre un valore aggiunto rispetto ad altri strumenti digitali o all’uso delle mail. Mette infatti a disposizione dei pazienti stimoli narrativi che invitano a riflettere sulla malattia, pensati per obiettivi terapeutici specifici: si tratta quindi di una narrazione orientata, non di una pagina bianca né di un questionario, allo scopo di contenere il racconto del paziente per finalizzarlo alla definizione di un percorso di cura personalizzato e condiviso. L’assistito può decidere di ignorare alcuni stimoli e di integrare la narrazione con osservazioni libere, autonome. Può scrivere la sua storia ma anche registrarla o includere video e immagini. Il curante può decidere se interagire con il paziente negli incontri programmati faccia a faccia o attraverso la piattaforma.

La metodologia è diversa da quella dei forum o delle community ospitate sui siti delle associazioni dei pazienti, che hanno un gran valore in termini di caring narrative, ovvero di narrazioni che si prendono cura, ma non consentono di personalizzare il percorso assistenziale. Anche le piattaforme generaliste come Facebook, Twitter o WhatsApp usano la tecnologia della conversazione ma non ne esauriscono tutte le potenzialità e spesso si limitano ad un utilizzo come strumento aggiunto di comunicazione con il medico per problematiche rapide ed immediati.

Dal 2016, la piattaforma è stata utilizzata in progetti pilota che hanno coinvolto decine di pazienti e medici in aree molto diverse: epilessia, diabete3, riabilitazione neurologica, fertilità, oncologia4, scompenso cardiaco5, malattia di Alzheimer.

Il primo bilancio è positivo. I curanti percepiscono l’uso dello strumento digitale come opportunità per modificare la modalità di relazione con il paziente. L’interazione digitale e asincrona consente infatti di gestire meglio i tempi della consultazione e facilita l’esposizione di contenuti più intimi e a forte carica emotiva. La storia e il linguaggio dei pazienti vengono esposti in modalità più protetta del’incontro faccia a faccia.

Le maggiori difficoltà sono associate all’interpretazione delle storie e alla capacità dei curanti di integrare i contenuti della narrazione (il percorso esistenziale) con le linee guida e i dati clinici (il percorso di cura). Questo rende indispensabile associare allo strumento digitale un percorso formativo e di counselling adeguato.

La partecipazione dei pazienti, contrariamente alle attese, sembra dipendere non tanto dalla alfabetizzazione digitale quanto dal rapporto del singolo con la scrittura. Ci sono pazienti che trovano la modalità espressiva digitale consona al racconto del proprio vissuto e altri che invece preferiscono la relazione in presenza.

Riflessioni conclusive

La medicina narrativa non è soltanto un’occasione per sottolineare i limiti del riduzionismo biomedico e costruire una migliore relazione, ma un approccio per migliorare le cure in funzione delle esigenze reali delle persone.

I risultati della DNM sono molto incoraggianti, tuttavia, per l’applicazione pratica come metodologia clinico-assistenziale di routine, è necessario procedere secondo un programma integrato di creazione di un contesto culturale sanitario orientato al paziente e di interventi di formazione specifica. È inoltre necessario elaborare una metodologia condivisa e standardizzata per la valutazione di efficacia degli interventi in termini di outcome clinici.