Quando si parla di cannibalismo s'intende l’alimentazione, parziale o totale, da parte di un individuo, animale o umano che sia, del corpo di un individuo della sua stessa specie. Invece, per antropofagia s’intende unicamente il cannibalismo umano1.

A coniare il termine cannibalismo, per la prima volta, fu Cristoforo Colombo durante i suoi quattro viaggi nelle Antille, tra il 1492 e il 1505, incontrando le tribù Caniba o Canima, da cui il termine cannibalismo1,2, ma la prima documentazione sul cannibalismo nell’uomo, in questo caso di pratica antropofagica, risale a molto tempo prima, cioè a Erodoto di Alicarnasso (484?- 430 a.C.). Nell’antica Grecia il termine servì unicamente per distinguere le popolazioni che parlavano greco dagli altri popoli, i cosiddetti barbari, che parlavano altre lingue e che secondo i greci praticavano l’antropofagia.

L‘antropofagia nel passato è stata ritenuta esclusivamente sacrificale mediante immolazione, soprattutto, di un nemico catturato in guerra, come era d’uso tra gli Aztechi e tante altre popolazioni del mondo in quel periodo. Era un rito che aveva come unico scopo quello di assimilare la forza, la potenza, soprattutto lo spirito del nemico (cannibalismo ritualizzato) e per guadagnare il favore degli dei che richiedevano, secondo gli Aztechi, questo sacrificio. L’antropofagia si reprime, si trasfigura e si ritualizza facendola diventare una tradizione (exocannibalismo), anche se sappiamo che questo fenomeno ha radici molto più antiche di quelle umane.

Abbiamo fatto l’esempio degli Aztechi, ma ce ne sono di molto più recenti. Tra alcune popolazioni della Nuova Guinea, negli anni ’70 del secolo scorso, si diffuse una malattia mai conosciuta e che venne chiamata Kuru, una parola che nella lingua locale significava “tremolio”3. Si trattava di una degenerazione del sistema nervoso, soprattutto di quella parte che controlla la muscolatura facciale. Poi si capì che la malattia era dovuta alla diffusione di comportamenti antropofagici di individui che nei cerimoniali consumavano soprattutto il cervello dei loro cari estinti. Il cervello del morto, che, tra l’altro, veniva cotto solo parzialmente e poi mangiato, diffondeva un’infezione virale grave nel sistema neurale dei commensali, che li portava alla morte.

Ora, però, il punto è quello di capire quali siano le motivazioni che spingono gli uomini, o gli animali, a commettere queste atrocità, che un tempo, comunque, non erano considerate tali. Per saperne di più su questo fenomeno così complesso, che nell’uomo di oggi è considerato tra i più blasfemi che si possano immaginare, dobbiamo partire dal confronto uomo-animale, soprattutto uomo-scimpanzé. Nello scimpanzé, infatti, il cannibalismo è diffuso più che in altre specie di scimmie.

Comunque, la disciplina che ha assunto come oggetto di studio l’antropofagia è, ed è sempre stata, l’Antropologia culturale, e non poteva essere diversamente, però lo ha fatto trascurando gli aspetti biologici, comparativi ed evolutivi di questo fenomeno, privilegiando quelli mitologici, simbolici e psicologici. Freud, per esempio, sosteneva che l’incorporazione della carne umana è una risposta psicologica alla frustrazione orale che inizia nel momento in cui il neonato si attacca al seno materno.

Cannibalismo e biologia

Il cannibalismo è un fenomeno biologico, come molti altri e l’errore che hanno fatto numerosi studiosi è stato quello di cercare di spiegare il cannibalismo osservato negli animali con quello umano. Si doveva invece fare il contrario, cioè partire dagli animali e poi arrivare all’uomo. Questo avrebbe permesso di avere spiegazioni molto più congruenti sull’evoluzione di questo fenomeno. Se, dunque, il cannibalismo esiste negli animali, anche in diverse specie di scimmie, c’è ragione di credere che esista anche nell’uomo, con la differenza che nell’uomo, per millenni, questo fenomeno ha subito l’influenza di molti elementi culturali, rituali e persino religiosi. Per intenderci, anche gli insetti praticano il cannibalismo, ma gli insetti non si possono considerare animali culturali.

Cannibalismo e aggressività

Per capire il perché del cannibalismo bisognerebbe partire dall’idea che sia un comportamento le cui radici dovrebbero essere ricercate nell’evoluzione dell’aggressività, non altrove.

La spiegazione è piuttosto semplice: per sopprimere un individuo della propria specie e poi alimentarsene, in parte o nella sua interezza, bisogna prima aggredirlo violentemente e ucciderlo, anche se poi in natura, più negli animali che nell’uomo, l’aggressività può essere sempre inibita dalla ritualizzazione dell’aggressività stessa. Per esempio, durante il corteggiamento, negli animali, ma anche nell’uomo, si manifestano dei rituali che hanno l’unico scopo di smorzare l’aggressività intraspecifica. Sono chiamati comportamenti sostitutivi. L’uccello che si liscia le penne prima di iniziare il corteggiamento o il ragazzo che si passa le dita tra i capelli prima di cominciare a corteggiare una ragazza, sono segni evidenti di una ridirezione inconsapevole dell’aggressività. Se un maschio durante il corteggiamento volesse andare aggressivamente subito al sodo, senza nessuna forma di corteggiamento, non otterrebbe alcun successo, se non il rifiuto del partner.

Infine esiste un’altra questione importante da chiarire che possiamo riassumere in questo modo. Dal momento che il cannibalismo non ha nessuna funzione nutrizionale, come è stato dimostrato da molte ricerche (il valore nutrizionale della carne di un conspecifico è scarsissimo), il gioco non varrebbe la candela. Sarebbe molto meglio indirizzare le proprie energie alla ricerca di altri nutrimenti naturali. Allora, perché si cannibalizza, dopo aver soppresso la vittima? Perché si arriva a tanto, quando abbiamo appena detto che, razionalmente, non ne vale la pena? La risposta è che il cannibalismo si deve considerare come una prosecuzione del comportamento aggressivo verso un conspecifico che, in effetti, non è più tale perché è stato già soppresso e quindi è diventato un oggetto inanimato e innocuo. Un aggressore, di fronte a un individuo, decisamente morto, potrebbe lasciar perdere e dedicarsi ad altro. Perché non lo fa? Che cosa lo spinge a continuare nella sua violenza? Il fatto è che il morto, essendo tale, non lancia più i segnali che hanno lo scopo fondamentale di inibire l’aggressore e direzionare la sua aggressività altrove. A tale scopo alcuni stimoli molto importanti atti a inibire l’aggressività di un adulto verso un piccolo solo e indifeso, sono, per esempio, il gemito, lo sguardo dolce e innocente, ma scompaiono con la sua morte.

Il cannibalismo nelle scimmie

Se esiste una specie in cui il cannibalismo sia stato osservato e studiato approfonditamente è quella dello Scimpanzé comune (Pan troglodytes) che vive lungo la riva Est del Lago Tanganika in Tanzania4. Il fatto rilevante è stato osservare che a uccidere dei neonati e poi ad alimentarsene, anche se solo di alcune parti del loro corpo, erano dei maschi adulti e dominanti e tutte le volte le vittime erano maschi che, tra l’altro, dovevano ancora terminare il periodo dello svezzamento. In questi casi, l’età e il sesso delle vittime erano le due variabili più importanti che influivano sulla manifestazione del cannibalismo.

Tralasciando la descrizione dei fatti ai quali gli studiosi hanno assistito, tra l’altro raccapriccianti, subito è venuto loro il sospetto, giustamente, che il cannibalismo avesse avuto a che fare con il comportamento riproduttivo. Infatti, l’infanticida era quasi sempre un leader appena subentrato nel gruppo dopo aver spodestato il vecchio leader che aveva avuto dei figli e che quindi non appartenevano alla sua progenie e che proprio per questo dovevano essere eliminati.

Non bisogna mai dimenticare che il desiderio di ogni leader è sempre quello di vedersi intorno i propri figli, non quelli degli altri. La ragione di tanta violenza, però, potrebbe essere ancora più sottile, cioè la conseguenza di una interruzione, spesso non voluta, di una relazione affettiva tra la madre del piccolo soppresso e l’infanticida. Dopo l’interruzione di questo rapporto, alcuni maschi manifestavano infatti dei disturbi emozionali molto evidenti, come se fossero il riflesso di una relazione che non poteva più essere ripristinata, in sostanza per avere fatto una scelta sbagliata per la propagazione del loro patrimonio genetico.

Conclusioni

Concludiamo facendo una riflessione su quello che abbiamo scritto all’inizio di questo articolo. Gli spagnoli, con Cristoforo Colombo, quando arrivarono nelle Indie occidentali, abolirono l’antropofagia considerandola blasfema e contro i principi cattolici, credendo che fosse largamente diffusa tra gli Indios. Però, nel dubbio, ipocritamente, che cosa fecero per mettere in atto questo proposito? Si servirono della carne degli Indios uccisi per darla in pasto ad altri Indios che stavano morendo di fame e di stenti. I conquistadores fecero cose ancora più abominevoli. Con il grasso della carne degli Indios curarono le loro ferite, pensando che fosse un rimedio, e con il loro sangue concimarono i giardini delle loro case coloniali, pensando che fosse un buon fertilizzante. Gli spagnoli, per gli Indios, fecero aprire delle macellerie di carne umana, per dimostrare che erano dei cannibali e che quindi potevano essere sterminati, cosa che fecero. Ma il fatto più straordinario fu che gli spagnoli, in verità, non trovarono mai nessuna prova o testimonianza che gli Indios praticassero l’antropofagia vera e propria. In conclusione, se il cannibalismo è stato riscontrato negli animali, ed è vero, essi, però, non sono mai arrivati a concepire e praticare per questo stermini di massa.

Note

1 Angelo Tartabini. Cannibalismo e antropofagia. Milano, Mursia Editore, 1997.
2Angelo Tartabini. Colombian enterprice and Amerindian cannibalism. Wall Street International Magazine, 12 Ottobre 2019.
3Shirley Lindenbaum. Cannibalism, Kuru and Anthropology. Folia Primatologica, 47(2): 138-144, 2009.
4Jane Goodall. Infant killing and cannibalism in free-living chimpanzees. Folia Primatologica, 28(4): 259-289, 1977.