La telegrafia e la telefonia senza fili erano allora in uso da un’estremità all’altra dell’Europa, e d’un impiego così facile, che l’uomo più povero poteva parlare, quando e come voleva, a un’altra persona stabilita in qualunque parte del globo. Un omino con gli occhiali è seduto non so dove, davanti a una tastiera; è il nostro unico soldato. Basta ch’egli metta il dito su un tasto per polverizzare un esercito di cinquecentomila uomini.

Lo scrive Anatole France nel suo Sulla pietra bianca, straordinario romanzo visionario in forma di dialogo. Quattro francesi, in vacanza a Roma in primavera, si incontrano al tramonto tra i ruderi del Foro romano per chiacchierare, discutere e ragionare di politica e di civiltà, commentando la storia più antica dell’uomo e del mondo e spingendosi ad azzardare previsioni sulle sorti dell’umanità oltre l‘ anno duemila1. È il 1905 e le prefigurazioni del futuro sono di sconvolgente attualità.

Oggi viviamo tutti quasi in simbiosi con le tastiere del computer e del cellulare alle quali siamo quotidianamente attaccati. Ci sono sicuramente di grandissima utilità, l’uno e l’altro, soprattutto in questi momenti di pandemia che ci blocca in casa, evitandoci di restare isolati dal resto del mondo. Ci colleghiamo, comunichiamo, lavoriamo, ci sfoghiamo, esprimiamo giudizi con i nostri “mi piace”, ci svaghiamo, ci risparmiamo il fastidio delle code agli sportelli delle banche e degli uffici pubblici.

La rete sta allargando le sue capacità di coinvolgimento e ci apre sempre più generosamente le porte e i confini di casa, rafforzando così inevitabilmente i suoi strapoteri e probabilmente non ridurrà la sua influenza quando finalmente, come tutti speriamo, questo flagello epidemiologico sarà debellato. La rete continuerà a servirci, sempre più disponibile premurosa, ma anche a intrappolarci inestricabilmente tra le sue maglie, diventando di giorno in giorno più simile a quella dei pescatori dalla quale i pesci, una volta catturati, non riescono più a venir fuori. Fatale domandarsi se grazie ad essa diventeremo più forti e sicuri di noi e delle nostre energie o più vulnerabili e fragili. Ma anche il web, estesissimo, invadente, invasivo e prepotente, rimane alla fine fragilissimo, come la bellissima e perfetta rete tessuta dal ragno che anche un leggero alito di vento può spazzare via.

Basta, infatti, un giovane hacker che si mette davanti a una tastiera, come l’omino con gli occhiali di cui scriveva più di cento anni fa Anatole France, per mandare in crisi sistemi operativi, archivi e banche dati, pur difesi dai più vigili e attrezzati firewall. Siamo diventati, del resto, così dipendenti dalla rete che basta una mezza giornata di interruzione del collegamento a immobilizzarci in uno stato di angoscia, con gli occhi fissi sulle spie rosse del modem aspettando che ridiventino verdi ad annunciare il ripristino della linea.

Si rinnova uno stranissimo e incomprensibile comportamento dell’uomo che, pur alla ricerca continua di stabili certezze, ha sempre affidato la sua memoria scritta, i suoi documenti, il suo lavoro e le sue risorse a supporti sempre estremamente deperibili e vulnerabili: prima la parola, poi la carta indifendibile di fronte alla minaccia del fuoco e dell’acqua, poi ancora l’immaterialità delle scritture in rete a distruggere la quali può bastare un minimo blackout di energia, un errore di manovra o l’assalto di un devastatore informatico.

Ma la carta, alla fine, ce l’ha fatta, lasciandosi governare dall’uomo e offrendo il suo corpo alla scrittura e poi alla conservazione in archivi, in biblioteche e nei cassetti delle nostre case, ce l’ha fatta ad attraversare i secoli e arrivare al giro di boa del terzo millennio, perché, alla fine è rimasta sostanzialmente pur sempre capace di riconsegnare all’uomo, attraverso la lettura, i suoi contenuti. Non sappiamo ancora se ce la faranno ad essere così longeve anche la scrittura elettronica e la rete, schiave degli stessi progressi scientifici che ne rinnovano efficienza e funzionalità. Perché proprio le innovazioni tecnologiche e scientifiche procedono così rapidamente, da rendere assai presto inutilizzabile quello che producono. I più accorsati strumenti innovativi invecchiano e muoiono, sostituiti quasi giorno per giorno da nuovi. Chi può leggere più un floppy che ha vent’anni di vita o guardare il contenuto di una videocassetta, per non dire dell’ascolto di musicassetta che, nata nel 1963, ha raggiunto la rispettabile età dei sessanta anni? La tecnologia diventa spesso un mostro velocissimo, proiettata così in avanti che non è capace, guardandosi per un attimo alle spalle, di recuperare niente del più recente passato che ha alimentato.

Ma sulla tastiera, proprio come quella immaginata dallo scrittore francese, si esercitano anche la violenza più becera e la cieca follia di chi, nascosto dall’invisibilità e dall’anonimato, gioca con la vita dei più vulnerabili.

Gli unici rimedi contro l’invadenza e la prigionia della rete sono la nostra umanità, il nostro connaturato bisogno di stare insieme, di parlare insieme, di soffrire e gioire insieme, di avere contatti verbali e fisici, di abbracciarci, di esprimere gesti d’amore, solidarietà, sostegno: di riappropriarci, insomma, di quelle abitudini e quei comportamenti di cui la rete ci sta privando, collegandoci l’uno all’altro virtualmente, ma allontanandoci inesorabilmente l’uno dall’altro.

Ma il tragico momento che stiamo vivendo impedisce questi necessari contatti umani diventati pericolosissimi e ci porta sempre più a trincerarci nel rapporto da remoto: rapporto rapido, sincopato, sbrigativo, spesso ellittico, ritmato da pin, password, codici alfanumerici e dall’ossessione della velocità. Riacquisiremo, trascorso questo momento di forzato isolamento, il bisogno dello stare insieme o resteremo imbrigliati nelle maglie della rete anche quando potremo di nuovo abbracciarci, baciarci e darci la mano?

Difficile dire se siamo ormai nel tragico futuro irreversibile immaginato e prefigurato in passato da scrittori visionari come Verne, France, Orwell, o se, debellata questa pandemia, sarà possibile recuperare la nostra carica di umanità. La storia dell’uomo che ha attraversato momenti più tragici di questo sembrerebbe aprire una speranza: sapranno salvarci da questa prigionia nel web forse la fede religiosa, qualunque essa sia, la paura della solitudine, il fastidio per la fredda indifferenza del computer, la fiducia nell’uomo e nella natura, purché non ci si lasci sopraffare e schiavizzare dal progresso tecnologico che noi stessi abbiamo creato e, soprattutto, non si dimentichi mai il monito contenuto in una delle più belle poesie del poeta inglese John Donne: che “nessun uomo è un isola2”.

1 Anatole France (1844 – 1924), Sulla pietra bianca. Milano, Rizzoli, 1961, pagine 167 e 181.
2 John Donne (1572 – 1631), No Man is an Island, (1624).