Oltre duemilacinquecento anni fa, un uomo proveniente in schiavitù dal vicino oriente, elaborò a contatto con la sua vita una serie di racconti in forma di favola, nei quali affrontava la natura umana cercando di spiegarla e indicando qualche possibile giustificazione di comportamenti, usanze, anche deviazioni dell’animo umano. Si chiamava, secondo la tradizione storica, Esopo e veniva dalla Frigia. Nessuna notizia diretta su di lui, soltanto indicazioni frammentarie ma di scrittori, storici e filosofi dell’antichità come Plutarco, Erodoto e Aristofane. Come spesso accade a cospetto con eredità antichissime alcuni studiosi hanno persino messo in dubbio che il corpus di favole che gli viene attribuito sia opera di un unico autore. Forse i primi racconti in forma di favola che ci sono stati tramandati sono considerati suoi.

Non intendiamo occuparci di cultura antica, non avremmo neppure i titoli per farlo, ma per affrontare il tema di queste riflessioni ci appare interessante ricordare per accenni proprio un’antichissima favola di Esopo sul corpo umano. Immedesimandoci peraltro nelle conoscenze di un uomo di quasi tremila anni fa e osservandone l’intuizione.

In quella favola, si narra che quando il corpo umano venne creato tutti gli organi che ne facevano parte si candidarono a diventarne il capo. Lo fece il cervello ritenendo che tutto si svolgesse grazie a lui, lo fece lo stomaco per la sua innegabile funzione di nutrimento e trasformazione del cibo in energia, Lo fecero gli arti superiori ed inferiori richiamando la loro capacità di far muovere l’essere umano. Insomma uno per uno gli organi sottolinearono il motivo per il quale dovevano dirigere il tutto. Naturalmente lo fece anche l’intestino - che oggi consideriamo una sorta di secondo cervello ancestrale - ed anche la sua parte finale, da sempre considerata deteriore. A questa candidatura tutti si opposero con una grande risata e accadde così che proprio quella parte decise, con permalosità, di non fare il suo lavoro. In poco tempo tutto il corpo cominciò ad ammalarsi, salì la febbre, vennero i crampi, le gambe si indebolirono e via dicendo.

Tralasciando la conclusione ironica che per Esopo era la dimostrazione della umana imperfezione, abbiamo preso a prestito questa antica favoletta per entrare nel merito, ovvero parlare di come un’impresa umana debba essere considerata come un vero corpus, come un organismo vivente dove ogni parte, ogni snodo, deve funzionare all’unisono nella condivisione del valore e degli obiettivi.

È la tesi suggestiva e descritta con dovizia di elementi da Massimo Mercati, amministratore delegato di Aboca, azienda dal 1978 all’avanguardia nella ricerca e nell'innovazione terapeutica a base di complessi molecolari naturali per contribuire alla salute e al benessere delle persone e alla protezione dell’ambiente.

Nelle parole e nell’impegno di Mercati - raccolte in un libro dal titolo L’impresa come sistema vivente pubblicato nella collana International Lectures of Nature and Human Ecology - si legge una sorta di manifesto che l’azienda fa proprio essendosi recentemente costituita in società benefit per poter meglio perseguire i propri obiettivi e porsi come antesignana in questa nuova direzione di equilibrio fra l’uomo e la natura che viene da molti indicata ormai come la strada obbligata per salvare la vita sul nostro pianeta.

Considerare l'impresa come un sistema vivente, si osserva nella prefazione, “permette di rileggere la realtà aziendale in profondità. È una visione che rende l'impresa fortemente interdipendente dal contesto in cui agisce, una comunità tra le comunità che non può più esistere in modo autoreferenziale e diventa creatrice di valore solo quando svolge appieno la sua funzione economico-sociale. Un valore che non si esaurisce nella realizzazione del profitto, ma si estende all'impatto sull'ambiente e sulla società attraverso la crescita culturale di tutti i membri dell'azienda, uniti dall'idea di operare insieme nella direzione del bene comune”.

“Trovare nella natura le risposte ai bisogni legati alla salute dell'uomo, nel rispetto del suo organismo e dell'ambiente, sviluppando modelli agricoli sostenibili e investendo nella ricerca scientifica” è uno dei capisaldi dell’azione di Aboca.

Si affronta a fondo il rapporto tra uomo e natura, partendo da un semplice assunto: la visione sistemica della vita estesa alla dimensione dell'impresa intesa come organizzazione sociale. Ecco perché una volta concepita in questo modo la stessa impresa diventa un progetto di vita “in cui non si possono più distinguere due morali, una per il lavoro e l'altra per la vita privata”. Ovviamente tutto questo non deriva in modo diretto, per default, ma perché sia possibile “l'imprenditore dovrà identificare i valori di fondo della propria organizzazione e condividerli, in modo che si affermino come punti di riferimento concreti, capaci di guidare realmente le azioni di tutti coloro che ne fanno parte. "Seguendo i valori spirituali", ricorda Mercati, citando Adriano Olivetti, "i beni materiali sorgeranno da sé."

Abbiamo incontrato di recente Massimo Mercati in Friuli Venezia Giulia, e con lui abbiamo affrontato i passaggi cruciali e il significato del suo impegno. Una visione e un impegno che non possono che essere di grande interesse provenendo da un imprenditore giovane ma di salda formazione.

Dunque proviamo ad addentrarci nel suo ragionamento. In primo luogo, Mercati sposa la concezione definita olistica o sistemica in contrapposizione al cosiddetto riduzionismo. L’ottica è praticamente quella di vedere, analizzare, comprendere le parti materiali e immateriali che formano il disegno di un’impresa e inserirle in uno schema che dia loro significato. Dalle parti in sostanza si arriva al tutto. E nella complessità di insieme si scorgono e si identificano gli elementi semplici che la costituiscono. Più che due estremi, due valori sinergici. E il risultato non è la semplice somma degli elementi di partenza, ma qualcosa che li trascende.

Naturalmente perché tutto questo complesso di elementi abbia senso, occorre che ognuno di essi sia in collegamento, in rete come si direbbe subito oggi. Ma la rete altro non è che il modo stesso di manifestarsi della natura in tutte le sue manifestazioni. Di qui emerge un altro elemento: la rete ha senso e vita solamente se le parti entrano e sono in relazione tra loro. E solo da queste relazioni e dall’emergere delle proprietà di ogni elemento in rete si arriva al significato di quanto si sta costruendo. Solo arrivando a questo significato si può fare il passo successivo: dare una vision - una finalità, come l’antico termine greco telos – a quel che si sta facendo e si vuole creare.

Massimo, dunque, partiamo da qui!

Parlerei di un orizzonte comune di significato dove i singoli individui acquistano la propria identità di membri della rete sociale che in questo modo genera l’ambito stesso della sua estensione. In altre parole, se vogliamo considerare l’impresa come una rete dobbiamo subito porci il significato che la determina. Ovvero identificare in senso teleologico la visione alla quale conformare l’azione concreta. Spesso però si ritiene che questo possa accadere attraverso scelte organizzative e/o tecniche dimenticando l’aspetto più importante che è quella identità collettiva che sola dà senso all’impresa dal vertice a tutte le sue parti: nel libro parlo di un nucleo ideologico di valori che costituiscono la manifestazione concreta dell’agire riconoscendo ad ogni elemento il suo specifico ruolo già da solo determinante per il tutto. È una sorta di rivoluzione copernicana perché va ad incidere su uno degli aspetti da sempre ritenuti preponderanti in un’impresa: fare profitto al di là e al di sopra di tutto. È evidente che non ci si nasconde che non basta trovare questo nucleo ideologico ma occorre che l’organizzazione lo faccia proprio conformandosi ad esso. Di qui l’enuclearsi della mission che si intende esercitare per il fine che ci si è posti.

Tra i riferimenti più interessanti vi è quello del volo degli stormi di uccelli e il loro modo di essere stormo, per così dire. Anche qui esiste qualcosa di più dello schema e tornano alla mente gli antichi aruspici che esaminavano il volo e ne traevano auspici per il futuro, in un certo senso come un imprenditore oggi che guarda alla crescita della sua azienda?

È sempre dalla natura e nella natura che riusciamo a trovare, con umiltà ed etica, molti dei valori che poi cerchiamo di fare nostri nell’agire e nel costruire. Esistono studi, che cito nel volume, su come uno stormo reagisce ad un pericolo come quello dell’attacco di un rapace che nella vita di un’impresa potrebbe essere un’informazione, un input importante per evitare danni o scelte errate nell’affrontare il mercato. In questi studi si dice che sono almeno tre le regole di comportamento, la separazione, l’allineamento, la coesione. Nel primo caso si evita il sovraffollamento e il rischio di collisione all’interno del gruppo; nel secondo caso, tutti cambiano direzione in modo coordinato per uniformarsi e non dividersi; nel terzo caso, si agisce per mantenere l’uniformità della distanza tra i componenti lo stormo e non offrire il fianco agli attacchi.

È facile capire che se in un sistema complesso come l’impresa i comportamenti di tutti, nei loro ruoli, seguono queste semplici regole, la complessità di insieme viene governata e senza danneggiare alcuno. Se qualcuno rema contro, non condivide e gioca al ribasso, il tutto perde coesione e si espone ai rischi. È mirabile vedere nella natura regole semplici per le complessità che esistono da sempre e che reggono quel delicato e incredibile sistema che è la vita sulla terra. Proprio a questo delicato sistema ogni essere vivente e ogni struttura deve coordinarsi per evitare il caos e il conseguente squilibrio. È quel principio del wu wei, della filosofia taoista che si racchiude nella frase “non fare nulla e che nulla non sia fatto” traduzione ermetica certo, che tuttavia possiamo tradurre come un invito a studiare il potenziale di ogni situazione senza interferire con gli eventi calibrando azione e non azione, tenendo ben chiaro l’obiettivo di fondo. O, ancora, se sottraiamo l’ovvio aggiungiamo il significato.

Ma allora, che cosa dobbiamo tenere a mente nella gestione di un’impresa?

Dal mio punto di visuale è opportuno capire quali siano i principi di fondo da seguire per gestire un’impresa intendendola come un sistema vivente organizzato a rete. La mia esperienza e gli studi in merito mi hanno portato a ritenere centrali due concetti: la leadership e la responsabilità. E anche qui la natura ci sorregge. Dall’analisi dei sistemi naturali viventi deriviamo il concetto di individualità – dalla cellula agli organismi complessi – e di relazione con l’ambiente. In questa relazione vi è una prima risposta che potremmo indicare come il passaggio dal cogito ergo sum di Cartesio al com-puto ergo sum di Edgard Morin, ovvero la capacità non solo di pensare ma di considerare le cose nel loro insieme ovvero tracciare distinzioni, connettere, comparare, valutare. E superare la dicotomia causa-effetto nella sua scarna essenza. L’imprenditore insomma deve creare le condizioni come metodo per orientare il sistema verso un obiettivo prefissato, ma monitorando costantemente il processo del divenire. Ed anche qui modulando la sua azione superando il binomio comando-risultato.

Tornando alla responsabilità il ruolo di chi la assume quale capo di un’impresa, nella direzione di un organico svolgersi delle funzioni proprie di essa, deve fondarsi su tre elementi: la competenza, la virtù, la sollecitudine che danno sostanza alla funzione sociale del fare impresa.

Sul primo punto è evidente che si segue di più un capo che ha esperienza e conoscenza approfondita; sul secondo che l’integrità morale spinge a seguire le indicazioni condividendone l’essenza. Il terzo elemento però è quello che differenzia il contesto e lo rende relazionale e non soggettivo. È la sollecitudine, la costante attenzione nei confronti degli altri, pur coniugata con la visione per la quale si agisce e si organizza la struttura. Di più, chi comanda non esercita solo un potere, ma soprattutto è al servizio degli altri e del bene comune che nel nostro caso è la prosperità dell’impresa, la creazione di valore e la condivisione di esso.

Un atteggiamento che si collega e si concilia anche con il rapporto tra uomo e ambiente?

Direi che siamo in un momento storico nel quale la crescita lineare che ha caratterizzato la Rivoluzione industriale e tutto il secolo passato mostra evidenti rallentamenti e rischi di veri e propri stop. La stessa fase che viviamo a confronto con la pandemia ci mostra in modo stringente che siamo dinanzi alla necessità di creare un nuovo sistema di rapporti economici e sociali che, per la prima volta in modo incisivo, sono condizionati dalla finitezza di insieme. Prima da quella delle risorse non infinite della Terra, dopo anche dalla nostra personale incapacità di adeguarci a questa nuova dimensione che non sarà temporanea ma che ci chiede in modo imperativo una nuova visione complessiva nei confronti della vita sul pianeta e nel nostro vivere e agire in comunità. La forza delle risorse dell’uomo deve essere coniugata con la necessità di adattarsi al nuovo contesto che la natura di pone dinanzi. Molti, ormai troppi, i segnali di cambiamento climatico per far finta che tutto sia un passaggio. E questo richiede che prevalga sull’antico detto latino il nuovo homo homini natura amicus. E ancora che prevalga l’umiltà di riconoscere citando Seneca animum debes mutare, non coelum ovvero non possiamo pensare di piegare la natura al nostro volere o adattarla alle nostre esigenze. Anche perché il distacco tra uomo e natura è l’inizio della fine della civiltà come la conosciamo. Ma non si tratta neppure di salvare la Terra e basta. Ma capire che il sistema è entropico, è un sistema chiuso e finito e dunque dobbiamo riorganizzarci in esso per garantirci una crescita equilibrata e in armonia con la natura senza forzature. E così come non basta solo salvare il pianeta, allo stesso modo non si può pensare che la risposta sia una decrescita tutt’altro che felice peraltro. Il nocciolo del cambiamento è nel concetto che non è il profitto che crea valore ma la creazione di valore che genera il profitto!