Un’antica pratica agricola, semplice e redditizia allo stesso tempo, chiamata maggese, dal latino maius maggio, rappresenta ancora oggi una soluzione importante per le rotazioni agrarie. Ne parlava nel tredicesimo secolo l’agronomo bolognese Pietro de’ Crescenzi (1233-1320), nel manuale Opus ruralium commodorum, in realtà era una pratica ben più antica: Columella, scrittore latino del I secolo d.C., nel suo trattato sull’agricoltura, De re rustica, ne aveva fatto il fondamento della pratica agricola. Il maggese consiste nel lasciare a riposo il terreno per un’intera annata affinché poi possa accogliere una coltura successiva a cereale o a leguminosa.

L’alternanza di queste due colture con una fase priva di coltivazione, fin dall’antichità era stabilita in cicli biennali, triennali e quadriennali proprio per far sì che il terreno potesse inerbire, consentire cioè la crescita spontanea dell’erba, ricostituire la vita della microfauna e microflora del terreno, favorire l’immagazzinamento dell’acqua nel suolo e mantenerlo più soffice, non calpestato da macchine che lo lavorano o raccolgono i prodotti. Ebbene questo metodo era adottato soprattutto nelle aree aride e semiaride ma anche nelle zone dell’Italia settentrionale e quindi nella ricca pianura padana dove fu sempre praticato; “il Crescenzi anche per queste zone chiama quies (riposo) oppure ager vacuus, ager nudus, cioè terreno lasciato temporaneamente incolto”1.

La biodiversità agricola italiana rispecchia una variabilità di morfologie dei terreni, altimetria, clima e tipi di suolo che consente un’ampia specializzazione di colture tutte legate a variabili che hanno dimostrato che coltivare le stesse colture senza curarsi di tali peculiarità locali non consente buoni risultati, né quantitativamente ma ancor di più qualitativamente. Ebbene è sufficiente spostarci di poche centinaia di chilometri da Nord a Sud dell’Italia per capire come certe terre sono in grado di produrre bene, ottenendo quelle caratteristiche colture che solo lì raggiungono il loro massimo livello qualitativo.

Ho potuto visitare diverse realtà, tra l’Umbria e le Marche, proprio le più provate dal terribile sisma del 2016 e capire come quelle terre hanno una resilienza eccezionale e nonostante tutto i loro abitanti hanno avuto la forza e il coraggio di non abbandonare il campo. Luoghi unici, incredibilmente spettacolari dal punto di vista estetico e paesaggistico, come l’altopiano che accoglie la bellissima antica Norcia, la piana di Castelluccio circondata dai monti azzurri dei Sibillini, oggi mi appaiono silenziosi. Effettivamente avvolti da un’aurea misteriosa, trasmettono ancora come nel lontano medioevo un senso di forza e tradizione culturale soprattutto in ambito agricolo. Lì si trovava la grotta della ineffabile Sibilla appenninica, che fu meta di viaggiatori, maghi e negromanti proprio a partire dal Medioevo. Era situata nel monte del lago di Pilato così chiamato per la leggenda secondo cui al tempo di Gesù vi sprofondò con il suo corpo il procuratore romano della Palestina. Alcuni studiosi ancora cercano di svelarne la storia temendo una madornale invenzione2. Non lontano dal lago più a valle quei terreni declivi e difficili sono ancora oggetto di cure attente per la coltivazione di leguminose e cereali, il pascolo di ovini la cui lana non è più di interesse per il mercato nazionale. La piccola cittadina di Castelluccio di Norcia, raggiungibile percorrendo una strada di ventotto chilometri tra boschi e vallate che spaziano su un paesaggio vasto dove non c’è costruzione a perdita d’occhio, oggi non esiste più, ci sono solo otto abitanti data l’inagibilità delle case rimaste e il crollo della buona parte del paese. Eppure la terra rimane e produce le migliori lenticchie che possiamo rintracciare sul mercato internazionale. Piccolissime, dei grani di pepe, che si cuociono con facilità mantenendosi integre e saporite. Non tutti sanno quanto sia facile trovarsi in tavola le lenticchie importate dal Canada, piatte, grandi, facili da cuocere, ma poco gustose e avere una brutta sorpresa nel piatto. Allo stesso modo il farro monocco, Triticum monococcum, o il farro spelta, Triticum spelta, si alternano ad altre leguminose tipiche della zona come il cece (Cicer arietinum) e la roveja (Pisum arvense), pisello dei campi coltivato anticamente nell’areale di Cascia e Norcia.

Anche questi due legumi sono prodotti qui da secoli perché il terreno arido e ricco di scheletro favorisce lo sviluppo ottimale di queste colture amano i climi secchi e asciutti mentre rifuggono ristagni idrici e umidità. Purtroppo le leguminose, per quanto in aumento nella dieta del consumatore in questi ultimi cinque anni, vengono importate in Europa e quindi in Italia per la maggior parte dall’estero, ad esempio, per la lenticchia il 77 % della produzione è realizzata in Canada, India, Australia e Turchia. Sebbene le politiche europee stiano promuovendo e sostenendo la produzione nei Paesi membri, siamo ancora lontani da un’autosufficienza in questo senso: “Sul piano nutrizionale, oltre che fornire proteine, i legumi forniscono amidi a basso indice glicemico e fibre e possono quindi essere utili nella prevenzione delle malattie metaboliche. Lo afferma Bálint Balázs, ricercatore ungherese a capo dell’Environmental Social Science Research Group (ESSRG), che coordina una parte del progetto europeo Fit4Food2030 incentrato sulla sostenibilità della produzione alimentare”. 3

Allo stesso tempo il Ministero delle Risorse agricole, in un rapporto sui legumi del 2016, esprimeva delle perplessità sulla concentrazione delle grandi produzioni di legumi in pochi Paesi del mondo. “Ad esempio, un aumento dei prezzi mondiali causato da penuria di prodotto in uno dei grandi Paesi produttori o esportatori come Canada, USA o India, potrebbe innescare manovre speculative provocando un ingiustificato aumento dei prezzi in quelle aree meno progredite dove è predominante l’auto approvvigionamento. Pertanto, per uno sviluppo sostenibile del settore mondiale dei legumi, sarebbe auspicabile contenere le concentrazioni produttive e incrementare le produzioni locali”. Se riflettiamo sul fatto che i dati FAO del 2014 indicano come primo produttore nel mondo di ceci l’India con il 69,4 % mentre l’Europa contribuisce con lo 0,3%, neanche si può immaginare quanto sia irrilevante il contributo dell’Umbria, alla produzione di questo legume, nella sua zona più vocata in Italia. Allo stesso modo possiamo dire delle lenticchie dove invece è il Canada che la fa da padrone con il 40,7% della produzione mondiale contro l’1,5 % dell’Europa!

Un mercato di nicchia ancor più circoscritto è quello del biologico dove gli agricoltori con grandi sforzi cercano di rientrare con i bilanci, per mettere sul mercato un prodotto di grande qualità ma con produzioni ridotte dove la differenza la fa proprio il microambiente, l’attenzione alle rotazioni, alle concimazioni naturali degli allevamenti ovini che qui producono un formaggio pecorino molto rinomato.

Mi sono spinta tra Norcia e Cascia, facendo chilometri all’interno di zone boschive in direzione degli alpeggi verso la località di Forsivo, un tetto naturale che guarda i Sibillini e a 360 gradi vede cime innevate, pascoli erbosi dove ancora in novembre le pecore godono di spazi aperti completamente selvaggi, da centinaia di anni ancora così. Scorgo una malga, è appena nato un agnello, di cosa si nutre chiedo al pastore: “Di latte, ecco la sua mamma. Lo venderò al mercato ma a 60 euro, non di più”. Mentre nel fienile trovo farro, avena, orzo prodotti sempre per l’alimentazione dei cento capi ora al pascolo, mantenuti ancora come cento duecento anni fa. “Qui vivevano i miei nonni siamo a 1200 metri di altezza, è dura vivere qui da soli, ma il mio sogno sarebbe recuperarlo perché neanche il terremoto ha demolito questa casa di pietra, è ancora solida”. Proseguo il mio viaggio verso la pianura marchigiana e per trenta chilometri incontro solo boschi di querce, faggi, carpini, sommacchi4 rossi e arancio che infiammano la strada. Scorgo una fioritura tardiva autunnale bianca e scopro dal profumo ineffabile che si tratta di santoreggia, Satureja montana, citata già nel 1597 dal monaco agostiniano eugubino, curatore del Giardino dei semplici a Roma. Evangelista Quattrami, infatti, racconta di averla trovata in “gran quantità ad un monte presso Norcia, poco sopra dove alle volte suole uscire un torrente…”5. Eccomi a pochi chilometri dall’ombelico d’Italia (Italiae umbilicum), come lo chiamava Plinio, il lago di Pilato, dove la natura continua a stupire per la sua selvatichezza, mi allontano da qui con la speranza che queste incredibili risorse locali non vadano mai perdute.

Note

1 Agostino Bignardi, Il sistema del maggese in Pietro De Crescenzi in Discorsi e scritti agricoli di Agostino Bignardi, (a cura di) Giovanni Martirano e Ugo Marco Neri, Edagricole, Bologna 1984.
2 Alessandro Menghini, Il mistero del lago di Pilato, AMP Edizioni, Perugia 2005.
3 Barilla Center for Food nutrition Magazine, 10 Ottobre 2019.
4 Ruscotinus coggigrya Scop., nome che Plinio attribuiva a un arbusto appenninico dal legno rosso e dal quale si ricavava un colorante purpureo.
5 Evangelista Quattrami, Tractatus perutilis atque necessarius ad Theriacam, Mitridaticamque antidotum componendam, V. Baldini, Ferrara 1597.