La paura è una sensazione ancestrale, intimamente legata alla morte, al senso ineluttabile di una fine imminente.

Tra le emozioni è quella più antica: le sue radici affondano nell’istinto di sopravvivenza, in quella risposta adrenalinica che spinge alla fuga, lontano dai pericoli. È la madre di tutte le forze, perché è capace di mischiare il corpo e la mente, in maniera disordinata, rendendoli fragili e vulnerabili. È uno strumento basilare che fissa le regole dell’esistenza; il suo meccanismo biologico è già attivo alla nascita come reazione istintiva agli stimoli luminosi, ai rumori forti e improvvisi.

Davanti a una minaccia reale o immaginaria, il respiro accelera e il cuore inizia a battere velocemente: ossigeno e sangue arrivano ai muscoli per prepararli alla fuga o alla lotta. Solo le funzioni organiche essenziali diventano indispensabili e necessarie, tutto il resto viene momentaneamente sospeso; non a caso la digestione rallenta, lo stesso avviene per la salivazione e la secrezione gastrica.

Al contrario, gli organi di senso e l’attenzione sono in piena efficienza, la pressione arteriosa aumenta, la circolazione periferica si ritira per fronteggiare meglio le offese (in modo da ridurre eventuali perdite di sangue), a vantaggio degli organi vitali e delle principali masse muscolari.

Tutte le manifestazioni fisiche sono mediate dal sistema nervoso vegetativo, con la partecipazione diretta dell’ipofisi e di altre ghiandole endocrine, come le surrenali, impegnate a produrre vari ormoni, soprattutto adrenalina e corticosteroidi.

Letta in chiave evoluzionistica, la paura assume il ruolo di un’emozione d’emergenza, calibrata per periodi brevi, il tempo necessario a scongiurare una minaccia incombente e a sviluppare delle valide strategie di difesa.

Passato il pericolo, l’organismo ritorna gradualmente alla normalità, riconquistando il suo naturale equilibrio fisico e psichico (omeostasi generale).

La paura, in base all’intensità, può manifestarsi come panico che travolge ogni cosa o come terrore, capace di annullare ogni forma di sensibilità. Solo quando la tensione raggiunge il massimo e diventa inaccettabile, i margini della realtà si chiudono, bloccando ogni comunicazione fisica, verbale e affettiva. Allora l’effetto è paralizzante: in breve tempo i muscoli si contraggono, il corpo s’irrigidisce e si ritira, confinandosi nel proprio spazio vitale. A volte la minaccia è palese e facilmente riconoscibile, altre volte è un’entità invisibile che agisce in maniera subdola, imprevedibile.

Davanti a fatti nuovi, inattesi, avvertiti come ostili, spesso la paura sfocia in un’ansia persistente e generalizzata. Sono quelle situazioni che ci impediscono di uscire allo scoperto e di misurarci con il mondo, e verso le quali ci sentiamo a disagio, inadeguati e impotenti. È quello che accade, ad esempio, quando si affronta un’emergenza sanitaria legata alla diffusione di una malattia infettiva con caratteristiche pandemiche. Le misure di contenimento del contagio ci costringono a fermarci, a modificare la nostra socialità, a mantenere le opportune distanze fisiche e a stravolgere i ritmi e le abitudini quotidiane.

Quando un agente patogeno abbandona gli spazi e gli ospiti abituali, per irrompere nei luoghi umani, nel cuore delle megalopoli, trovandosi perfettamente a suo agio, oltre a rappresentare un indubbio problema di sanità pubblica, assume, in una prospettiva antropologica, anche le caratteristiche di una leva simbolica, capace di capovolgere gli schemi e gli ordini sociali e politici (vedi la sfida nella corsa al vaccino contro il Covid-19 da parte delle superpotenze).

Il rimescolamento tra i piani umani e non umani, e il progressivo processo di allontanamento dalla Natura, che avvelena la società moderna, ci obbligano a guardare la realtà con occhi diversi.

Quella soglia di “estraneità”, dotata di senso, che segna il confine tra lo spazio umano e l’“altrove” non umano, è diventata una polarità mobile e vitale.

Intorno a noi si profila un campo di possibilità, una complessa rete di nuovi legami e interdipendenze. Solo nei momenti di crisi, quando sentiamo che la nostra sopravvivenza è messa a rischio, ci rendiamo conto che siamo parte di un unico ed enorme ecosistema, una specie di humus generativo, una forma di coabitazione all’insegna della sinergia e della mescolanza.