L’ispirazione per questo articolo è venuta dalla visione occasionale di un film di Vittorio De Sica intitolato Umberto D. È un vecchio film girato nel 1952, quando l’Italia, dopo il disastro della seconda guerra mondiale, usciva con le ossa rotte dal conflitto. È la storia di un pensionato ridotto in miseria che ha come unico amico un cane di nome Flaik, un Jack Russell Terrier, un animale molto intelligente, energico, socievole, di buon carattere, in sostanza un ottimo animale da compagnia.

Umberto D. prova per il suo terrier un grande affetto che rasenta il patetico e che lo spinge a cercare nel suo animale la propria immagine, ma è l’immagine di un uomo caduto in disgrazia e che davanti a sé non ha futuro, proprio perché è vecchio e ha perso tutte le sue amicizie. A Umberto D., affranto, sconsolato e distrutto, resta solo il suo cane; con lui vorrebbe condividere la sua drammatica risoluzione di gettarsi sotto a un treno, ma poi realizza che, nonostante tutte le difficoltà, Flaik è ciò che gli resta ancora di buono e puro al mondo. È un film molto toccante e compassionevole. Non a caso, la sceneggiatura è di Cesare Zavattini, uno dei grandi maestri del neorealismo italiano.

Si possono conoscere tutti i comportamenti dei cani, esserne dei grandi esperti, ma il film di De Sica è di grande insegnamento. Ci fa riflettere profondamente su quelle che possono essere le relazioni affettive tra l’uomo e l’animale, in questo caso il cane, e deve farci riflettere soprattutto sulla relazione psicologica tra la mente di questo animale e quella del suo padrone.

La cinematografia si è interessata più volte ad argomenti di questo genere e il fatto è piuttosto singolare. Infatti, un altro esempio molto toccante ci viene fornito da un altro film, questa volta di un regista giapponese, Seijiro Koyama, dal titolo Hachiko Monogatari in cui il protagonista ha un cane, appunto Hachiko, di razza Akita, che cura e ama come se fosse un figlio. È la storia (infatti “Monogatari” in giapponese significa storia) di un professore che fa il pendolare tra il posto di lavoro e casa. Ogni sera, al suo rientro, il cane lo aspetta alla stazione ferroviaria e insieme, felici e contenti, ritornano a casa. Poi il padrone improvvisamente muore e il cane rimane solo. Questo non cambia le abitudini del cane che si reca alla stazione sempre alla stessa ora aspettando invano che il suo padrone scenda dal treno. Anche in questo caso non servono molte parole per descrivere la profondità sentimentale che coinvolge questi due personaggi.

Sui cani esistono molte altre storie e curiosità. Un epitaffio sulla tomba di un Terranova di nome Boatswain che in inglese vuol dire nostromo, appartenuto al poeta George Gordon Byron, recita così: “Possedette la bellezza senza vanità, la forza senza insolenza, il coraggio senza ferocia e tutte le virtù dell’uomo senza i suoi vizi”. Si tratta di una frase che la dice lunga su quello che può essere il rapporto tra l’uomo e il cane, che è presente sulla Terra da più di 135.000 anni cioè da quando subì una divergenza genetica dal suo più diretto predecessore, il lupo. Probabilmente, come ha sostenuto il noto etologo Konrad Lorenz, il cane è il risultato di un incrocio tra il lupo e lo sciacallo, d’altro canto al suo stesso genere Canis appartengono il lupo, il coyote e diverse specie di sciacalli.

Però alcuni scienziati e zoologi ritengono che il cane, il nostro cane domestico, il Canis familiaris, non discenda direttamente dal lupo, ma da un antenato simile al lupo. Al di là dell’origine genetica del cane, che ovviamente è importante, è la personalità dei suoi predecessori che ha un valore fondamentale per l’amicizia che ci lega da millenni a questo animale. Lorenz a proposito della personalità del suo cane scrisse: “Poche cose mi danno un senso di consolante sicurezza come la fedeltà del mio cane”. Con questa frase Lorenz riporta alla luce la figura del cane che s’incentra fondamentalmente sulla sua grande fedeltà verso il suo padrone.

A proposito di fedeltà, tutti conosciamo il racconto epico di Ulisse nell’Odissea di Omero che dopo vent’anni ritorna alla sua casa di Itaca e il primo a riconoscerlo, non sono i Proci o i suoi servi, ma il suo cane Argo. Argo crede subito a ciò che vede, cioè a Ulisse, anche se invecchiato, trasformato e travestito da mendicante, perché ha mantenuto la sua fedeltà per lui.

I cani di cui abbiamo appena parlato, Boatswain, Hachiko e Argo hanno manifestato verso i loro padroni una notevole intelligenza adattiva e relazionale, lavorativa, affettiva e anche istintiva.

Sull’intelligenza dei cani sono stati scritti molti libri e non poteva essere diversamente dato l’alto valore affettivo che questi animali riescono a dimostrare verso il padrone. Padrone è una brutta parola, ma i cani considerano chi si prende cura di loro, più che un padrone, un capo branco, dal momento che questi animali prima che venissero addomesticati avevano una socialità molto spiccata. Vivevano in branchi con un forte senso della gerarchia, come accade ancora nei lupi e non solo. I cani domestici spesso si mettono accanto ai padroni per fargli le feste e per leccarli, mentre scodinzolano gioiosi, proprio come fanno i lupi verso il maschio alfa.

Ma i cani, sebbene oggi al mondo ne esistano circa 4.000 razze, non sono solo questo: hanno una mente molto evoluta così come i loro stati di coscienza. Qualcuno potrebbe storcere il caso di fronte alla parola “coscienza”, ma il punto è che qualsiasi cosa sia la coscienza per noi esseri umani, lo deve essere anche per gli animali, cani inclusi. Il filosofo americano Daniel Dennett disse che noi uomini siamo delle creature popperiane (da Karl Popper) cioè capaci di manifestare dei comportamenti non casuali come risultato di una continua riprogettazione culturale, ovvero in grado di lavorare con la nostra mente (così come i cani lo sono con la loro mente). L’unica differenza è che noi uomini siamo creature popperiane umane, i cani creature popperiane animali.

Forse i cani non sono capaci di fare delle elaborazioni mentali come noi esseri umani? Molti non lo credono, ma esistono numerosi esempi che dimostrerebbero il contrario. Il fatto è che spesso noi uomini e padroni dei cani non ce ne rendiamo conto. Crediamo di essere superiori perché più degli animali, quindi anche dei cani, abbiamo il “dono” della parola. Ma la parola è poi determinante ai fini delle capacità cognitive e delle riflessioni che facciamo sul nostro pensiero? Il fatto è che la parola è solo uno strumento che rende più veloce il passaggio di informazioni nella comunicazione, ma non è necessariamente l’unico. Anche gli animali hanno i loro strumenti comunicativi efficaci quanto l’uso della parola. Inoltre, per la formulazione dei concetti sono indispensabili le parole? Non direi. Per esempio, il cane può possedere il concetto del gatto, solo che per lui il concetto del gatto è canino, non umano. In sostanza, i cani sono stati sempre dei cacciatori e non hanno mai perso completamente questo istinto, altrimenti non sarebbero dei cani e non avrebbero niente in comune con i loro antenati lupi o simili ai lupi. In conclusione, i cani hanno le loro competenze mentali e i loro concetti, come noi uomini abbiamo i nostri.

Durante il processo di addomesticamento del cane, l’uomo ha sempre cercato di carpire da questo animale gli aspetti migliori e quelli a lui più utili approfittando del fatto che i cani provano le nostre stesse emozioni, come la rabbia, il senso di colpa, la paura eccetera, nonché dei sentimenti quali l’affettività e, se vogliamo, l’amore per il padrone. Dei cani abbiamo sempre cercato la lealtà e la capacità di attribuire agli altri cani, ma anche agli uomini, il primo luogo al padrone, pensieri e sentimenti empatici. Il fatto è che poi abbiamo approfittato della loro lealtà e buonafede. Non è un caso che molto spesso troviamo scritto sui cartelli appesi ai cancelli di ville di uomini ricchi e che devono difendersi dai ladri “attenti al cane” (Cave canem scrivevano i latini), mentre in realtà su quei cartelli dovrebbe esserci scritto “attenti ai padroni”, tra l’altro, muniti spesso di armi da fuoco. Il fatto è che noi uomini, anche se abbiamo dei buoni rapporti con questi animali, spesso proiettiamo su di loro le nostre paure e le nostre ansie. I proprietari di cani con dei disturbi psicologici sono infatti più nevrotici, agitati e nervosi di quelli che hanno cani normali.

In ultimo, l’idea sull’intelligenza del cane basata sull’obbedienza è sbagliata: il cane non è intelligente perché ubbidisce al padrone; è intelligente perché sa “leggere” il pensiero del padrone, una capacità mentale fondamentale in queste creature, che sembrano essere state selezionate per alleviare le sofferenze dell’uomo, soprattutto dell’uomo solo, proprio come Umberto D.

San Rocco, protettore dei cani, sempre rappresentato nell’iconografia religiosa con accanto un cane, in una arringa in sua difesa, un giorno si scagliò duramente contro coloro che sostenevano che i cani dovessero essere trattati duramente per renderli più obbedienti. Perché questo amore per i cani da parte di San Rocco? Si racconta che fu proprio un cane a salvargli la vita mentre stava morendo di fame e di peste, portandogli ogni giorno un pezzo di pane che rubava dalla mensa del suo padrone.

Letture consigliate

Budiansky, S. 2000. The truth about dogs. New York, Viking Press (tr. it. L’indole del cane. Milano, Raffaello Corina Editore, 2005).
Grenier, R. 1998. Les larmes d’Ulysse. Paris, Editions Gallimard (tr. it. Le lacrime di Ulisse. Roma, Edizioni e/o, 2003).
Coren, S. 1994. The intelligence of dogs. New York, Free Press (tr. it. L’intelligenza dei cani. Milano, Oscar Saggi Mondadori, 1995).
McHugh, S. 2004. Dog. London, Reaktion Books (tr. it. Storia sociale dei cani. Torino, Bollati Boringhieri, 2008).
D.C. Dennett, 1996. Kinds of minds. New York, Basic Books (tr. it. La mente e le menti. Milano, Sansoni Editore, 1993).