Le diagnosi sono costruzioni. Le malattie non esistono come chiare entità della natura. Sono create intellettualmente come idee concettuali o etichette, in continuo modellamento.

(Bjorn Andersen)

Le malattie sono create per convenienza operativa, non esistono come tali in natura. Esse sono costruzioni mentali, artificiali, modificabili. Si parla infatti di dinamica nosologica, “malattie in movimento”, per esempio, isteria, bulimia, ludopatie hanno o hanno avuto significato e importanza diverse in epoche differenti.

Fare diagnosi significa organizzare un insieme di informazioni (sintomi, segni, esami strumentali) in una struttura concettuale significativa per prendere una decisione pratica.

Il modello diagnostico prevalente in medicina è quello dicotomico: il paziente riferisce e/o mostra uno o più sintomi e/o segni attribuibili a più patologie e il medico per ciascuna di esse deve dare un giudizio chiaro di presenza o assenza (sì o no) per arrivare ad una diagnosi differenziale, seguendo le ben note fasi del ragionamento clinico e decisionale, che consente di produrre, dai dati clinici disponibili, ipotesi diagnostiche verificabili mediante esami di laboratorio e/o tecniche di imaging.

L’approccio “binario” classico deriva dai tempi in cui la medicina affrontava malattie in stadi avanzati, altamente sintomatici, non esistendo i mezzi tecnici per effettuare diagnosi in fase più precoce. Attualmente è ancora molto utile nella pratica medica stabilendo però che il suo vero significato è quello di consentire la descrizione del paziente in quanto “caso da curare” e non di una malattia in quanto entità. Il noto epidemiologo G. Rose cita tra gli altri l’esempio dello psichiatra che individua alcuni soggetti come casi di depressione ma il cui vero significato è “casi da sottoporre a cure antidepressive” poiché la depressione in se stessa si presenta in stadi più o meno gravi alcuni dei quali non arrivano ad essere curati dallo psichiatra.

Lo stesso vale per la maggioranza delle patologie così, ad esempio, l’aterosclerosi può evidenziarsi nelle forme delle sindromi coronariche acute o rimanere clinicamente silente, anche a parità di alterazioni coronariche, essendo ben nota la dissociazione tra lesioni anatomiche ed eventi clinici.

Le malattie in realtà sono processi graduali, si presentano come un continuum all’interno del quale la medicina, per convenienza operativa, arbitrariamente dal punto di vista dell’ordine naturale ma legittimamente per quanto riguarda la necessità pratica di definizioni certe, stabilisce una linea di confine tra normale o patologico, con mezzi clinici e/o strumentali.

Ad esempio, il diabete mellito rappresenta la parte nota, emergente, di un continuum che, partendo dalla situazione metabolica normale, attraversa gli stadi dell’insulino-resistenza, della ridotta tolleranza al glucosio, del diabete non ancora diagnosticato.

I valori di glicemia utilizzati per la diagnosi di diabete sono stati per anni molto variabili finchè nel 1979 il National Diabetes Data Group standardizzò per la prima volta i criteri diagnostici per il diabete e la ridotta tolleranza glucidica, permettendo un immediato inquadramento di una patologia di per sé molto complessa. In seguito, altre istituzioni mediche hanno apportato ulteriori modifiche. L’ultima è stata la proposta dell’American Diabetes Association di ridurre il valore soglia della glicemia a digiuno per la diagnosi di diabete a 126 mg/dl essendo ormai dimostrato che anche questi livelli espongono al rischio delle complicanze tipiche del diabete.

Associato al continuum di gravità clinica esiste infatti il continuum del rischio di malattia. Ad esempio, la linea di confine tra normotensione e ipertensione è arbitraria. Per definizione corrente essa identifica il livello di pressione al di sopra del quale gli interventi terapeutici hanno mostrato di ridurre il rischio. In realtà la relazione pressione arteriosa eventi cardiovascolari è lineare, continua, senza un valore soglia al di sotto del quale valori più bassi non si associano a un minor rischio cardiovascolare.

La diagnosi non deve peraltro scotomizzare il resto: il paziente non può essere definito solo da una “etichetta”. La diagnosi è una verità, è il modo del medico di descrivere quello che il paziente invece sente e vive (chi ne sa di più?). I suoi effetti e il suo impatto devono pertanto essere diluiti e circoscritti e talvolta si deve lasciare spazio ad altre autonome e competitive costruzioni di senso del paziente che spesso rifiuta quello scientifico perché soverchiante rispetto alle sue deboli e non scientifiche (ma terapeutiche) capacità di autodescrizione autonoma. La diagnosi non deve quindi stabilire una distanza, una separazione (“dia-gnosis” è un sapere che separa). Oltre alla dimensione scientifica si deve considerare la dimensione dell’immaginario individuale delle persone.

La diagnosi consiste nel rendere un momento particolare della storia di un cittadino coerente al suo sapere, non astratto e atemporale ma in flagranza di vita vissuta. Una risposta alla domanda, spesso inespressa: “cosa mi sta succedendo?”.

Il significato della diagnosi si colloca infatti nella storia biologica ma anche biografica delle persone, che, più che di una etichetta, hanno bisogno di chiedersi il perché e di trovare risposte che abbiano un senso.

La diagnosi permette di integrare la conoscenza del medico, esperto di oggettività (patologie codificate) e quella del paziente, esperto di soggettività (la sua sofferenza/disagio) per concordare il significato di quanto accade e definire strategie condivise, in uno scambio intersoggettivo di attribuzione di significato e interpretazione dei dati.