Apparirà forse strano che l’articolo di questo mese sia dedicato ad una sentenza della giustizia amministrativa nella quale l’aspetto tecnico-giuridico può risultare di difficile lettura a lettori poco esperti in materia. Tuttavia, l’interesse a parlarne è dovuto al dilemma che domina ormai il dibattito pubblico tra i favorevoli all’uso del vaccino anti-Covid-19 (la maggioranza) e i cosiddetti no-vax, che, pur essendo minoranza, animano rumorosamente, numerose manifestazioni di piazza in molte città italiane contestando l’obbligatorietà dei vaccini e dei green pass e, nelle posizioni più estreme, contestando l’esistenza stessa del virus.

Una recente sentenza della III sezione del Consiglio di Stato, depositata il 14 ottobre 2021, decisa in sede giurisdizionale, su ricorso avverso la pronuncia del Tribunale amministrativo della Regione Friuli-Venezia Giulia, ha stabilito un importante principio in ordine all’obbligo vaccinale cosiddetto selettivo, previsto dall’art. 4 del decreto legislativo n. 44/2021 (in G.U. il 1° aprile 2021) per gli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario.

Gli appellanti erano costituiti, in parte, da esercenti professioni sanitarie e, in parte, da operatori di interesse sanitario nella Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, non ancora sottoposti alla vaccinazione obbligatoria contro il virus Sars-CoV-2 prevista dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.

I ricorrenti contestavano infatti la legittimità degli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane hanno inteso dare applicazione, nei loro confronti, dell’obbligo vaccinale c.d. selettivo previsto dalla norma sopra richiamata.

Per comprendere a fondo il tema di causa, occorre ricordare che il citato art. 4, nel comma 1, dispone che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione, finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale – e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.

La vaccinazione costituisce espressamente, ai sensi del citato comma 1, della legge 43 “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati” ed è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle Regioni, dalle Province Autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano.

L’unica esenzione dall’obbligo vaccinale è doverosamente prevista, nel comma 2, per il solo caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale.

Gravi ed incisive sono le conseguenze dell’inadempimento ingiustificato all’obbligo vaccinale perché, come prevede espressamente l’art. 4, comma 6,del d.l. n. 44 del 2021, decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale e accertatane l’inadempimento da parte di uno o più operatori sanitari, è prevista “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2», come espressamente stabilisce ancora il comma 6 dell’art. 4.

In tali casi il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Ove tale demansionamento risulti impossibile, sospensione della retribuzione o di altro tipo di compenso “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.

Proprio tali misure costituirono l’oggetto del ricorso in quanto ritenute illegittime e incostituzionali. Il Tribunale amministrativo decideva per la inammissibilità del ricorso per motivi non di merito ma esclusivamente procedimentali, consistenti nella ritenuta carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa.

In sede di appello, il Consiglio di Stato dichiarava fondati i motivi relativi alla ammissibilità del ricorso, pur essendo stato proposto in forma collettiva e cumulativa. Nel merito, gli appellanti, riproponevano le censure già articolate avanti al Tribunale, premettendo considerazioni di ordine tecnico-scientifico, circa il breve tempo di cui si sono potute giovare le case farmaceutiche per gli studi, la predisposizione e la sperimentazione delle soluzioni vaccinali per prevenire il virus Sars-CoV-2, che, non avrebbe consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia dei vaccini, che devono precedere e assistere ogni prestazione sanitaria imposta ai sensi dell’art. 32, comma secondo, Cost. Seguivano rilievi circa la effettiva potenzialità dei vaccini a impedire la trasmissione del virus, la breve durata di efficacia degli stessi, l’incertezza scientifica circa le conseguenze a lungo termine.

Quanto ai rilievi in materia di autorizzazioni, va osservato che nella previsione dell’art. 4, comma 1 del Reg. (CE) n. 507/2006 del 29 marzo 2006, le autorizzazioni condizionate al commercio dei vaccini possano essere rilasciate qualora sussistano quattro rigorosi requisiti:

  • che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo;
  • che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi;
  • che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte;
  • che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari.

Tali forme di controllo forniscono valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso della campagna vaccinale, costituendo una componente essenziale della strategia dell’Unione in materia di vaccini, garanzie che distinguono nettamente questa ipotesi dalla c.d. “autorizzazione all’uso d’emergenza”, istituto diverso che, in alcuni Paesi (come gli Stati Uniti e l’Inghilterra) non autorizza un vaccino, ma l’uso temporaneo, per ragioni di emergenza, di un vaccino non autorizzato.

Tutti gli Stati membri dell’Unione hanno formalmente sottoscritto la strategia sui quattro vaccini ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale e dunque regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata, che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, come si è detto, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari”.

Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco (nel sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA, si ricorda “una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala”) né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di “completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole”.

La sentenza conclude sul punto recisamente confutando e respingendo l’affermazione secondo cui i vaccini contro il Sars-Cov-2 siano “sperimentali” come anche quella che mette radicalmente in dubbio la loro efficacia e/o la loro sicurezza, in quanto approvati senza un rigoroso processo di valutazione scientifica e di sperimentazione clinica che ne abbia preceduto l’ammissione, collocandosi l’autorizzazione condizionata pur sempre a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’ordinaria immissione in commercio di qualsiasi farmaco, senza che per questo ne vengano sminuite la completezza e la qualità dell’iter di ricerca e di sperimentazione.

Proseguendo nella lettura la sentenza osserva: “L’argomento degli appellanti, secondo cui, in assenza di una certezza assoluta offerta dalla scienza circa la sicurezza dei vaccini anche nel lungo periodo, il legislatore dovrebbe lasciare sempre e comunque l’individuo libero di scegliere se accettare o meno il trattamento sanitario e, dunque, di ammalarsi e contagiare gli altri, prova troppo ed è errato, già sul piano epistemologico, perché, così ragionando, l’utilizzo obbligato di una nuova terapia, in una fase emergenziale che vede il crescere esponenziale di contagi, morti, dovrebbe attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo e, potenzialmente, indefinito per tutte le possibili sperimentazioni cliniche necessarie a scongiurare il rischio, anche remoto (o immaginabile e persino immaginario) di tutti i possibili eventi avversi, tempo nel quale, intanto, la malattia continuerebbe incontrastata a mietere vittime senza alcuna possibilità di una cura che, seppure sulla base di dati non ancora completi, ha mostrato molti più benefici che rischi per la collettività.”

Sarebbe un macabro paradosso quello per i quali pazienti gravemente malati o anziani, ricoverati in strutture ospedaliere o in quelle residenziali, socio-assistenziali o socio-sanitarie (al cui personale lavorativo anche esterno, opportunamente, il recente art. 2, comma 1, del d.l. n. 122 del 10 settembre 2021 ha infatti esteso l’obbligo vaccinale, inserendo nel d.l. n. 44 del 2021 l’art. 4-bis), contraessero il virus, con effetti letali per essi, proprio nella struttura deputata alla loro cura e per causa del personale deputato alla loro cura, refrattario alla vaccinazione.

Il legislatore ha voluto scongiurare una simile evenienza, per rafforzare la indispensabile “relazione di cura e fiducia tra paziente e medico” e, più in generale, tra paziente e gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria, un ripudio dei valori più essenziali che la medicina deve perseguire e l’ordinamento deve difendere, a cominciare dalla solidarietà, concetto, questo, spesso dimenticato, in una prospettiva esasperatamente protesa solo a rivendicare diritti incomprimibili.

Tale relazione di cura e di fiducia, secondo l’art. 1, comma 2, della l. n.219 del 2017, è il fulcro della prestazione sanitaria e si fonda sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico, responsabilità non secondaria né trascurabile nella tutela del paziente che viene a contatto con personale medico e quello sanitario. Nel dovere di cura, che incombe al personale sanitario, rientra anche il dovere di tutelare il paziente, che ha fiducia nella sicurezza non solo della cura, ma anche della non contagiosità o non patogenicità di chi cura e del luogo in cui si cura, e questo essenziale obbligo di protezione di sé e dell’altro, connesso al dovere di cura e alla relazione di fiducia, non può lasciare il passo, evidentemente, a visioni individualistiche ed egoistiche, non giustificate in nessun modo sul piano scientifico, del singolo medico che, a fronte della minaccia pandemica, rivendichi la propria autonomia decisionale a non curarsi.

Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell’autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, con la previsione dell’obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza nella fase di emergenza contro il virus Sars-CoV-2 per la c.d. esitazione vaccinale.

In conclusione, il Consiglio richiama i parametri costituzionali che regolano l’obbligatorietà della vaccinazione come una questione più generale che, oltre ad implicare un delicato bilanciamento tra fondamentali valori, quello dell’autodeterminazione e quello della salute quale interesse della collettività secondo una declinazione solidaristica, investe lo stesso rapporto tra scienza e diritto, e, ancora più al fondo, il rapporto tra la conoscenza - e, dunque, l’informazione - e il suo contrario, la disinformazione e la democrazia.