Lo studio dei patrimoni culturali materiali e immateriali extraeuropei e la loro valorizzazione nei musei italiani con il coinvolgimento attivo delle comunità indigene. Questi sono i principali obiettivi che Camilla Fratini, appassionata, esperta, antropologa culturale, porta avanti dal 2012 attraverso una ricerca in Messico. Nato da un approccio inclusivo nei confronti delle comunità si è sviluppato in un dialogo aperto e partecipato, fondato sul rispetto reciproco. A lei chiediamo se è oggi, il momento giusto per promuovere con forza e determinazione una politica museale post-coloniale e interculturale.

“Il sistema museale italiano ed internazionale è ancora oggi caratterizzato da nette distinzioni tra tipologie museali: musei d’Arte e di Archeologia, musei di Etnologia, Scienze Naturali e Tradizioni Popolari; eppure le contaminazioni non mancano e capita di trovare materiali archeologici all’interno dei musei etnografici o materiali etnografici all’interno di musei d’Arte, e così via. Seppure i “Postcolonial Studies” hanno svelato il carattere politico delle modalità di classificazione e delle pratiche espositive del sistema museale occidentale, il processo di decolonizzazione di questi spazi sembra avere ancora molta strada da percorrere.

Riflettendo su come trasformare i musei in zone di contatto, utilizzando una nota espressione di James Clifford, dove le relazioni tra culture diverse possono essere re-immaginate, ci si rende conto del limite che le tipologie museali pongono alla costruzione del dialogo interculturale. Ciò si rende evidente quando nei processi di conservazione e valorizzazione di un bene sono coinvolte le “comunità patrimoniali”: queste devono normalmente adeguarsi alle tipologie museali date per classificare il loro patrimonio; ma se potessero essere loro a scegliere le categorie di classificazione dei beni culturali cosa accadrebbe? Un oggetto che noi definiamo archeologico potrebbe essere presentato come sacro, un copricapo di piume che noi definiamo etnografico potrebbe essere valorizzato nella sua dimensione politica; e allora esisterebbero musei del sacro, del politico, del quotidiano o delle tecnologie che potrebbero accogliere, ponendole sullo stesso piano, tutte le culture del mondo. Si tratta solo di un esempio per mettere in evidenza come i processi di patrimonializzazione e valorizzazione dei beni culturali ancora oggi corrano il rischio di mettere in atto forme di neocolonialismo: per questo è sempre più importante dare voce alle comunità di appartenenza dei beni e mettere al centro dei processi la loro partecipazione, permettendo che siano loro a decostruire la nostra visione eurocentrica del patrimonio e della sua valorizzazione.

In questa direzione vuole andare il mio progetto di ricerca dottorale incentrato sullo studio di un particolare pigmento di origine organica: il porpora marino prodotto dagli indigeni mixtechi della Costa di Oaxaca (Messico). Questo pigmento viene ottenuto attraverso la raccolta e la lavorazione del liquido che il mollusco gasteropode marino Plicopurpura Patula Pansa secerne dalla ghiandola ipobranchiale. Il più importante studio etnografico sul tema risale al 1909 con la pubblicazione da parte dell'etnologa ed archeologa statunitense Zelia Nuttall di un saggio dal titolo A curious survival in Mexico of the use of the purpura shell-fish for dyeing, nel quale l’autrice esamina il porpora prodotto dagli indigeni Huave dell'Istmo di Tehuantepec e testimonia come la pratica fosse, già all'epoca, sul punto di scomparire: infatti non più di venti capi all'anno, destinati alle donne di alto rango delle comunità, venivano tinti con questo colore.

L’etnologa analizzando le testimonianze dirette sulla produzione e gli usi del porpora tra gli Huave, ne individua una notevole similarità con il celebre pigmento Tyrian purple, un bene di lusso esportato dai Fenici in tutto il Mediterraneo antico e successivamente utilizzato dai Romani per tingere le vesti imperiali. La studiosa conclude che tale è la somiglianza nella produzione dei due colori che l'origine di quello americano è con tutta probabilità da ricercare in un contatto tra le due civiltà avvenuto in epoche remote. Se le conclusioni di Zelia Nuttall devono necessariamente essere contestualizzate nel dibattito dell'epoca relativo alle origini delle culture amerindiane ed alle teorie diffusioniste, le sue previsioni riguardo la progressiva estinzione delle pratiche connesse con il porpora si sono sfortunatamente rivelate corrette: attualmente in Messico un numero estremamente esiguo di indigeni mixtechi tiene in vita questa tradizione. A seguito dello scellerato sfruttamento del mollusco, negli anni '80 del Novecento, da parte di imprese giapponesi che ne utilizzavano il colore per la tintura di kimono, la specie ha rischiato di estinguersi in tutta l'area della costa occidentale del Messico.

Successivamente grazie alla mobilitazione delle comunità indigene locali si è giunti al riconoscimento del Plicopurpura Patula Pansa come specie protetta in Messico ed all'esclusività del diritto di sfruttamento da parte delle comunità indigene: le pratiche tradizionali rispettano infatti tutti i criteri di ecosostenibilità, in quanto per l'estrazione del colore l'animale non subisce alcun danno. Ciononostante, altri fattori minacciano, nel nostro tempo, la sopravvivenza di queste pratiche, tra i quali l'alterazione dell'ecosistema del mollusco a causa dell'inquinamento e del turismo, e soprattutto il tentativo da parte delle imprese locali di sfruttare la manodopera indigena sia per la produzione del pigmento, sia per la tintura di indumenti tradizionali da immettere nei mercati globali come beni di consumo rari ed esotici rivenduti a prezzi elevati. Un processo di mercificazione della tradizione del porpora che altera il sistema produttivo ed economico locale provocandone la perdita di controllo da parte delle comunità indigene, senza che queste ultime possano nemmeno beneficiare di guadagni tali da stimolare le nuove generazioni a proseguirne la produzione.

I processi di valorizzazione al livello locale, nazionale ed internazionale di pratiche come questa, così come auspicato dalla Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, dovrebbero favorire la loro tutela e funzionare da stimolo esogeno per sottrarle almeno in parte alle leggi del mercato globale ed al consumo turistico. Assumendo una postura antropologica partecipativa si vuole quindi contribuire con la ricerca scientifica alla valorizzazione della produzione del porpora marino ed al raggiungimento degli obiettivi che la comunità di riferimento si pone, senza volerli però determinare.

La valorizzazione delle tecniche e dei saperi connessi con il pigmento, come molti altri un patrimonio immateriale sul punto di scomparire, è oggi possibile anche all'interno dei musei soprattutto attraverso l'utilizzo di strumenti audiovisivi; ma la ricaduta applicativa del progetto in ambito museale vuole e deve essere pianificata e condivisa con la comunità patrimoniale. Più volte nel corso della mia ricerca sul campo è emersa una necessità che non avevo previsto: soddisfare la curiosità delle comunità riguardo alla relazione che il porpora marino ha con il mio mondo.

Allora, ripensando a Zelia Nuttall, ho raccontato di come questo pigmento abbia una storia molto antica anche nell’area del Mediterraneo, seppure da secoli non venga più prodotto, del suo valore simbolico e commerciale per i Fenici prima e per i Romani successivamente, e mi sono resa conto che incontravo il loro interesse, così come la produzione del porpora nel loro territorio incontra il mio. Abbiamo messo a confronto specie di molluschi, metodi di produzione e tipologie di tessuti tinti con il pigmento. Immaginare che gli imperatori romani indossassero indumenti tinti con il loro stesso pigmento è stato motivo di stupore e di orgoglio. A me è sembrato che due culture, molto lontane nel tempo e nello spazio, abbiano trovato un’opportunità per dialogare.

Se esiste un luogo dove è possibile costruire su solide basi un dialogo interculturale quello è il museo, uno spazio dove ciascuno può arricchirsi del patrimonio dell’altro. Superando i limiti posti dalle classificazioni e dalle tipologie museali già date, liberando le popolazioni indigene dal loro “destino etnologico”, usando un'espressione di Michael Ames, queste potranno scegliere di confrontarsi con gli elementi del patrimonio culturale mondiale che suscitano in loro maggiore interesse e curiosità, e di svelare connessioni che le nostre categorie e definizioni ci impediscono di cogliere.”