Un amico mi ha detto che esiste una teoria sociologica che spiega come l’imperfezione rimanga più impressa nella nostra memoria rispetto alla perfezione. Deve essere per questo che, a distanza di due anni, mi emoziono ancora ripensando al concerto di Soap&Skin a Ferrara, in una serata in cui la pianista austriaca, nata Anja Plashg, ebbe ripetute crisi di autostima sul palco, e prima della fine crollò sul prato, apparentemente svenuta, per poi riprendersi e portare alla fine un’esibizione tutta in bilico su una lama affilata. E dev’essere ancora per via di questo meccanismo mentale che, se ripenso al doppio concerto visto sabato 26 luglio al Lucca Summer Festival, man mano che passano i giorni e le ore il set di Cat Power guadagna spazio nel mio cuore, relegando di lato lo show, pur sostanzioso, divertente e riuscito, dei National.

L’imperfezione nell’arte ti fa pensare di assistere all’espressione di un sentimento o di un’idea, a un momento creativo sofferto, e non solo a una prestazione professionale di un artista che, indubbiamente, sta lavorando. Forse è la verità, forse è una mezza illusione. Da questo punto di vista Cat Power è esemplare: si è presentata sul palco di piazza Napoleone quando era ancora giorno, sigaretta in bocca, vestita come una reduce da una settimana d’influenza e gonfiata rispetto alle foto di pochi mesi fa. Con un set di luci pietoso, che quasi mai l’ha illuminata decentemente (per scelta?), e gli strumenti dei National, lì dietro, coperti da un’invereconda plastica traslucida stile imbianchini, c’era il rischio di dover assistere alla più dimessa delle esibizioni, con la piazza che ancora si stava riempiendo di ritardatari.

E invece no, perché nonostante non abbia mai preso la chitarra per suonare (a dire il vero una volta l’ha presa, posandola subito) appena si è messa davanti al microfono, Chan Marshall ha ricordato a tutti di che razza di intensità è capace. Anche quando tra una canzone e l’altra (e perfino durante i pezzi) ripeteva infinite richieste al fonico, o quando inscenava estenuanti time-out con il resto dei musicisti. Appena canta, improvvisamente tutto questo scompare, o meglio ancora, amplifica il risultato: ti trovi davanti a un talento, a una persona con evidenti fragilità, che ora si scusa, poco dopo sorride e ammicca alle prime file, poi si scusa di nuovo. Cammina sul filo, non c’è che dire, ma è una grande equilibrista, e tutta quella debolezza non fa che rendere più potente la sua voce alle tue orecchie. Appena attacca (come primo pezzo) una versione rallentata di The Greatest, o quando va avanti con Cherokee o verso la fine quando intona Metal Heart. Non c’è nemmeno un briciolo di cura dell’immagine, non c’è un copione (che invece ci sarà eccome per i National), c’è a malapena una scaletta che Chan ogni tanto corre a leggere a lato del palco, ma che probabilmente viene riscritta un paio di volte, perché a un certo punto torna al microfono e dice: devo finire, perché sta per piovere e tocca ai National, faccio un altro pezzo, grazie ragazzi. Ci guardiamo negli occhi: è piovuto nel pomeriggio, non c’è nessuna avvisaglia, riflettiamo sul fatto che più del maltempo la scacciano dal palco i demoni interiori. Invece, anche qui, nessuna finzione: lo sapremo dopo mezz’ora, quando all’ingresso di Matt Berninger e compagni ci cadranno sulla testa gocce da mezzo chilo l’una, e infileremo di corsa le giacche impermeabili, cercando la miglior visione del palco tra gli ombrelli aperti di quelli davanti a noi.

Dicevo del copione dei National. Lo ha rispettato anche il meteo nei minimi dettagli, perché mentre sul maxischermo passavano le immagini della band nel cammino dai camerini al palco, l’impianto audio ci consegnava l’inizio di Riders on the storm dei Doors, con il rumore della pioggia preso da L.A. Woman a confondersi con quello dell’acqua vera che, esattamente in quei momenti, cominciava ad arrivare, fermandosi dopo qualche minuto.

Parlando di musica e di spettacolo, forse l’unico legame vero tra i due set si è percepito quando Matt ha ringraziato per l’onore di essere lì dopo Cat Power, mettendola in un poker di preferitissimi insieme a Nick Cave, Tom Waits e Leonard Cohen. La band di Brooklyn ha suonato bene, ha alternato i brani più lenti (Green Gloves il mio favorito), cuciti sulla voce baritonale di Berninger, a quelli più furiosi, in cui la batteria di Bryan Devendorf (che insieme all’uso dei fiati caratterizza il suono e diventa il marchio di fabbrica) spinge sul ritmo e il pubblico batte le mani in un incalzare da piazza che funziona molto bene. Non ci sono imprevisti, non c’è un’esplosione che non ti aspetti, ma c’è una lista di buone canzoni che coinvolgono e che in un live si fanno apprezzare anche da chi, come me, a volte ha trovato ripetitivi e un po’ autocompiaciuti i loro dischi.

Prima della fine il copione prevede quello che è già successo a Ferrara e a Vasto, cioè che Berninger scende dal palco (sul quale ha già percorso qualche chilometro) e trascina dietro di sé decine di metri di cavo, continuando a cantare mentre passeggia in lungo e in largo; la folla un po’ si apre per fargli spazio e un po’ si richiude per stringergli la mano, dargli una pacca sulla spalla, o prendere una pacca dal servizio d’ordine che (con molta professionalità e controllo) evita gli eccessi. Alla fine il silenzio arriva dopo una Vanderlyle crybaby geeks suonata in acustico e intonata dal pubblico, con il solito Matt(atore) a gestire il microfono e dirigere il coro. E anche se non canta lui è uno dei momenti più belli.

Setlist

Cat Power

The greatest
Cherokee
Lord help the poor and needy
Manhattan
I found a reason
Bully
Metal heart
Ruin

The National

Don't swallow the cap
I should live in salt
Ada
Bloodbuzz Ohio
Sea of love
Hard to find
Afraid of everyone
Squalor Victoria
I need my girl
This is the last time
Green gloves
Abel
Apartment story
Pink rabbits
England
Graceless
Fake empire

Bis

Mr. November
Terrible love
Vanderlyle crybaby geeks