Nel 2013 si è esibito in trio al 12 Points Festival di Dublino. Quest'anno in piano solo al Festival di Edimburgo il 21 luglio e il 27 novembre sarà con il suo trio a Varsavia. La sua musica è un gioco da prendere sul serio.

Padre flautista e madre pianista. Sei nato nella musica. Vuol dire averla dentro da sempre e dunque conoscerla senza saperlo? Ereditare talento, orecchio, manualità, passione?

Il fatto di nascere in una famiglia di musicisti mi ha sicuramente aiutato ad avvicinarmi alla musica. Alcune componenti “linguistiche” della musica si possono imparare anche senza doverle studiare (basti pensare al silenzio, al piano e al forte, alla vivacità di alcune scansioni ritmiche), ma queste non bastano da sole a creare dal nulla un musicista. Il talento, che io chiamo predisposizione, è un ottimo punto di partenza per lo studio e la pratica, e, soprattutto in età molto giovane, accelera l’apprendimento. Mi ritengo fortunato, perché senza il sostegno e l’intelligenza dei miei genitori non sarebbe mai scaturita in me quella autentica passione che matura solo dopo che si è consapevoli del percorso svolto. Molti ragazzi talentuosi, con buon orecchio e con genitori musicisti, odiano la musica o la abbandonano a causa di cattivi insegnamenti. Aver vissuto fin da subito la musica come un gioco da prendere sul serio, mi ha aiutato ad alimentare quella passione genuina che mi accompagna ancora oggi.

Come ti sei accostato al pianoforte?

Era in casa, mia madre dava lezioni tutte le settimane. Non mi ricordo il momento preciso, ma mi piacque subito molto essere l’artefice di quei suoni!

Quando hai iniziato a studiare seriamente lo strumento?

A 6 anni ho cominciato autonomamente a studiare libri per bambini e a suonare a orecchio alcune semplici melodie; a 7 anni sono andato per la prima volta da un insegnante; a 8 anni ho fatto il mio primo concorso musicale.

Quando hai iniziato a suonare in pubblico?

Dagli 8 anni in poi ho cominciato a partecipare a concorsi di musica e concerti sia da solo che in contesti di musica da camera. Tra i 12 e i 15 anni ho fatto qualche piccolo concertino di musica pop/rock (sono passato nel giro di poco tempo dai Nomadi agli Emerson Lake and Palmer) e finalmente dai 17 anni in poi, dopo due anni che studiavo jazz, ho cominciato a esibirmi con i primi gruppi jazz.

Hai vinto sin da piccolo molti concorsi, raccontaci quali ricordi conservi ancora dentro di te.

Mi piaceva molto partecipare ai concerti di musica classica, per mettermi alla prova. Mi ricordo che in parecchi di questi concorsi eravamo più o meno sempre gli stessi giovani pianisti (i concorsi erano divisi per fasce d’età), e la cosa era molto divertente. Meno divertenti erano i genitori di molti di loro, sempre con il muso lungo e una competitività negli occhi che si vedeva lontano un miglio; anche le regole dei concorsi e le giurie erano severissime (vietati gli applausi!), tanto che spesso molti bambini non si sentivano a loro agio e si impicciavano a tal punto da scoppiare in lacrime e scappare dal palco. Dei concorsi di jazz ho un ricordo più vivido. Uno per tutti: nel 2010 vinsi il Vittoria Jazz Award in Sicilia (la prima volta per me nell’isola), e lì conobbi anche la mia attuale ragazza, Federica.

Oltre a eseguire, ben presto hai iniziato anche a comporre. A che musica ti ispiravi? Dicci di più.

Ho cominciato a comporre quasi fin da subito. Se l’improvvisazione può definirsi composizione estemporanea, e io quando ho cominciato a mettere le mani sul pianoforte in sostanza improvvisavo, è come se avessi sempre composto. Comporre non nel senso di mettere per iscritto ciò che si suona (questo avverrà più o meno dai 10 anni in poi), ma memorizzarlo per poi divertirsi a ripeterlo in un altro momento. Le mie prime composizioni/esecuzioni erano ispirate alla musica pop che sentivo alla radio, a scuola: giri di accordi molto semplici, melodie cantabili (e cantate a squarciagola!), accompagnamento a ottave, ritmo martellante. Lentamente cominciai a modificare i brani di musica classica che suonavo, swingandoli (come diceva mio padre, ma non era vero): i più riusciti erano quelli di Bach, perché la ritmicità del contrappunto creava una tensione stimolante e vivace. Con l’arrivo del computer e di un programma di scrittura musicale, cominciai a scrivere tutto ciò che inventavo, dalle canzonette ai brani simil – progressive, dalla musica dance ai ragtimes, senza sapere la differenza tra tutti questi generi. Solo dai 12/13 anni, dopo aver maturato un ascolto più preciso dei diversi tipi di musica, e dopo averne colto le principali differenze, cominciai a comporre seguendo filoni ben precisi: canzoni alla Pino Daniele, brani alla Led Zeppelin, suites alla Emerson Lake and Palmer, brani virtuosistici alla Dream Theater. Alcuni di questi ancora li possiedo e ogni tanto mi diverto molto a riascoltarti.

Il delicato passaggio dalla musica classica a quella jazz come è avvenuto?

Fin da quando ho cominciato a mettere le mani sul pianoforte, ho sempre avuto un approccio intuitivo, improvvisativo. I miei genitori hanno sempre notato che, oltre allo studio della musica classica, la mia vera inclinazione era quella di passare ore sullo strumento a suonare liberamente. A 14 anni fui mandato a una scuola di jazz, dove imparai le prime nozioni teoriche e strumentali. All’epoca ciò che mi appassionava di più era la musica progressive, quindi non dedicai molto tempo allo studio del jazz. Solo a 15 anni, dopo aver partecipato ai seminari di Siena Jazz, compresi quanto il jazz fosse vicino al mio modo di interpretare la musica. Da lì in poi cominciai seriamente a studiare la tradizione e gli standard, e nel giro di un anno ero completamente immerso in questo nuovo mondo.

Da lì in poi cos'è accaduto?

Dopo aver studiato intensamente per un anno sotto la guida di un ottimo musicista come Marco Di Gennaro, iniziai a partecipare con più frequenza a dei seminari estivi, vere e proprie full immersion di musica, stimoli e divertimento. In alcuni di questi corsi conobbi dei musicisti fantastici e, con alcuni di loro, fondammo il mio primo vero gruppo, di cui ancora oggi conservo un bellissimo ricordo: gli ZUT 4.

Ora hai un gruppo? Da chi è composto?

Il mio gruppo attuale (e anche il più longevo) è un trio, Enrico Zanisi Trio, composto, oltre che dal sottoscritto, da due musicisti strepitosi che conobbi nel 2010: Alessandro Paternesi, batterista, e Joe Rehmer, contrabbassista. Cominciammo a suonare insieme a inizio 2011, aprendo ogni settimana le jam session del Music Inn di Roma: tra brani originali, standard e ospitate varie ci facemmo veramente le ossa come trio! Abbiamo all’attivo due dischi, Life Variations (2012) e Keywords (2014), entrambi prodotti e pubblicati dalla prestigiosa etichetta Cam Jazz. Il trio è sempre stata la mia formazione preferita fin dalla mia prima esperienza con Pietro Ciancaglini (contrabbassista) e Ettore Fioravanti (batterista), con i quali incisi il mio primo disco da leader (Quasi Troppo Serio 2010 Nuccia/Egea) al quale ancora oggi sono molto legato. Al momento sostengo anche molti concerti in piano solo, e, sempre per la Cam Jazz, è di prossima uscita un disco in duo con un bravissimo e giovane sassofonista di Piacenza, Mattia Cigalini.

Sei già al secondo disco che si intitola Keywords, come vivi questo successo dato che sei ancora giovanissimo? E quale è la tua parola chiave?

Keywords in realtà è il mio terzo disco da leader e il secondo per la Cam Jazz. Sono molto contento di aver raggiunto un po’ di notorietà nel giro di soli due anni (soprattutto grazie alla vittoria del Top Jazz come Miglior Nuovo Talento del 2012), ma cerco di rimanere con i piedi per terra e di ampliare i miei orizzonti musicali con tanta pratica e tanta passione. Ciò che importa veramente è non fermarsi mai, fare in modo che la musica sia sempre fresca e originale, rimanendo genuini e onesti con se stessi. Una traccia del disco si chiama Equilibre: mi piace questa parola, equilibrio, perché l’Arte come la intendo io è sempre il frutto di un po’ di follia e un po’ di ponderazione, un po’ di confusione e un po’ di chiarezza.

Con quali musicisti hai collaborato e qualche aneddoto particolare?

Ho avuto la fortuna di collaborare con molti musicisti giovani e veterani, da cui ho ricevuto una quantità di stimoli inimmaginabile. Un aneddoto su tutti: mi fu data l’occasione di suonare con Sheila Jordan, cantante e artista fondamentale per la storia del jazz, insieme a due splendidi musicisti come Enrico Morello alla batteria e Luca Fattorini al contrabbasso. Durante l’unica prova prima del concerto, Sheila volle suonare un brano composto da lei per ricordare un momento molto difficile della sua vita; suonammo tutti benissimo e alla fine del brano lei si rivolse a me, commossa, dicendomi: “Nessuno ha mai suonato questo brano come lo hai suonato tu ora”. La sua sensibilità, la sua dolcezza, il suo carisma mi dettero molto.

Franco Fayenz, giornalista musicale, dice di te “ ...Ho intuito la sua facilità di comporre temi stupendi: questa dote uno ce l’ha in sé oppure è meglio che nemmeno ci provi... ”. Un bellissimo complimento, che parla oltre che di pratica e impegno anche di talento, di quel quid che non si può imparare. Cosa ne pensi?

Come ho già detto prima, il talento esiste ed è una fortuna averlo! Ma qualsiasi predisposizione si abbia, l’importante è saperla coltivare ed esserne consapevoli quanto basta per ricavarne il massimo.

Cosa consiglieresti a un giovane che si approccia a uno strumento?

Giocare, giocare, giocare. Ascoltare musica e riprodurla, divertirsi a suonare qualsiasi cosa senza preoccuparsi di passare le giornate sugli spartiti. Solo dopo essere entrati naturalmente in confidenza con lo strumento, si può procedere con lo studio della tecnica e della musica scritta (comunque utile se non indispensabile). L’importante è che lo strumento sia visto dal giovane come un altro modo per esprimere se stesso, forse più potente e comunicativo della voce stessa.

Cosa è per te il jazz e come viene percepito dalle persone?

E’ difficile dare una risposta a questa domanda. Frank Zappa sosteneva che parlare di musica fosse come ballare di architettura, o qualcosa di simile. Storicamente il jazz è una forma di musica afro-americana che ha avuto uno sviluppo ben preciso e nell’arco di un secolo ha realizzato ciò che la musica classica ha fatto in 1000 anni di evoluzione. Musicalmente il jazz si è globalizzato, quindi non possiamo più parlare di una sola matrice ma di moltissime componenti che lo influenzano. Purtroppo, come è avvenuto per la musica classica, il pubblico si è allontanato dalla musica jazz nel momento in cui alcuni musicisti hanno deciso di tagliare i ponti con l’origine popolare di questa musica, relegandola in una torre d’avorio accessibile a pochi eletti. Ciò che andrebbe recuperato e comunicato con forza, a mio parere, è proprio il fatto che il jazz, come tutte le musiche del pianeta, ha avuto un’origine popolare, funzionale se non addirittura di intrattenimento. Questo non vuol dire sminuire il valore del jazz come arte e dei musicisti come artisti impegnati, ma significa ricordarsi che la musica è una forma di linguaggio che ha radici popolari, che parla dell’oggi ed è suonata da musicisti che vivono nell’oggi. Troppo spesso invece il jazz viene percepito come una musica antiquata, noiosa, astrusa e intellettuale, ma, nella realtà, non è così.

Ti senti più un pianista sull’oceano o sulla terraferma?

Un po’ per aria, diciamo.