Rosario Di Rosa è un nome sul quale chi è alla ricerca di qualcosa di nuovo rispetto alla cerchia dei soliti noti nel jazz italiano dovrebbe puntare senza esitazioni. Siciliano, autodidatta ma con un palmarès di collaborazioni di assoluto rispetto, Di Rosa ha esordito di recente per la NAU Records, per la quale ha inciso un disco assolutamente fuori dagli schemi a partire dal titolo, Pop Corn Reflections, costituisce quindi lo spunto di una conversazione appassionata e sincera intorno a un progetto che si pone un'altra categoria anche rispetto alle sue precedenti produzioni discografiche, nel segno però della coerenza ed in attesa di capire l’ulteriore deriva che il disco avrà nella sua esecuzione live. Pop Corn Reflections - ribadisce il pianista - è il primo lavoro in cui ho scelto di utilizzare solo specifici aspetti inerenti il linguaggio musicale, senza rimandi a opere letterarie o a esperienze vissute. Alla base di tutto vi è un profondo lavoro di sintesi, sia a livello strumentale che compositivo, cominciato qualche anno fa e ancora in itinere. Credo così di aver inaugurato nel migliore dei modi il mio sodalizio con la NAU Records, etichetta milanese particolarmente attenta alle forme più contemporanee del jazz. Quando venne pianificata la prima pubblicazione, fu mio preciso intento quello di realizzare un disco in trio che suonasse nella maniera più diversa possibile dal classico piano trio".

Anche il titolo suona ben poco austero…

L’ironia è certamente voluta, così come ribadito dal titolo di ogni brano. L’ironia ha proprio lo scopo di controbilanciare un approccio compositivo che rischiava di risultare serioso, o forse pretenzioso. Ogni composizione è caratterizzata da un “pattern”, una cellula generatrice che di volta in volta assume aspetti differenti e che diventa "struttura" del brano stesso attraverso l'improvvisazione. Punti di partenza e di ispirazione fondamentali sono stati in tal senso la corrente minimalista di Steve Reich e Terry Riley e l'approccio seriale della Seconda Scuola di Vienna, di Schoenberg in particolare. Da tali presupposti è evidente come una certa dose di ironia nel titolo (piccole e semplici riflessioni sulla musica, grandi come dei pop corn) e nell'immagine di copertina (una scimmia come icona di sintesi e di primordiale) fosse necessaria per riflettere la nostra voglia calviniana di leggerezza e di prenderci poco sul serio.

Di certo con questo disco hai rilanciato le tue ambizioni oppure hai sentito proprio voglia di cambiare registro?

Direi che la seconda considerazione è quella più veritiera. In generale chi tenta di proporre una musica poco collocabile, soprattutto in Italia, deve faticare non poco per riuscire a trovare il proprio spazio. Il fatto che il mio disco Yawp!!!, pubblicato nel 2012, pur essendo stato votato tra i migliori dell'anno dalla rivista Jazzit, abbia portato ben poco in termini di visibilità lavorativa, ha fatto cadere in me anche le ultime inibizioni spingendomi a realizzare qualcosa senza compromessi. Pop Corn Reflections è il risultato dell'esigenza di spingere al massimo le mie possibilità creative. Per fare questo ho anche "revisionato" il mio rapporto con lo strumento, approfondendo negli ultimi anni lo studio del piano classico. Ho avuto modo di esplorare ambiti legati alla musica contemporanea che ho capito avrebbero arricchito il "mio" jazz e, nel contempo, soddisfatto il desiderio di realizzare un disco diverso. A conti fatti i tempi per mettere a punto le idee di partenza sono stati più lunghi della realizzazione vera e propria. Dopo mesi di ascolti e di studio, l'idea di usare un pattern si è consolidata pian piano e ha fatto sì che l'aspetto compositivo si riducesse notevolmente. Ecco perché la maggior parte delle partiture non supera le due/tre misure, in modo tale che l'improvvisazione tipica del jazz sia "regolata" da parametri inusuali che determinano la forma stessa della composizione.

Sei sempre stato affascinato da un uso corretto dell'elettronica, qual è il suo apporto nei confronti della tua musica?

Ormai da molti anni l'elettronica rappresenta un colore e un mezzo espressivo indispensabile per molti compositori. È l'elemento in più che conferisce ulteriore carattere a una composizione ma non ne condivido l'uso enfatizzato e massiccio. Al contrario mi interessa maggiormente far emergere le diversità timbriche che gli strumenti acustici sono in grado di offrire, anche a costo di utilizzarli in maniera poco ortodossa. Ciò accade ad esempio nel brano d'apertura dell'album, Pattern n.74, in cui l'elettronica interagisce con un suono di pianoforte ottenuto pizzicando direttamente la cordiera.

Dove piazzeresti questo disco nell’ambito del tuo percorso artitico?

Ritengo che ogni disco realizzato rappresenti l'istantanea di una specifica fase temporale nella quale mi trovavo. Forse una possibile costante individuabile è l'assoluto progredire, in termini di contenuti, che si coglie da un disco all'altro. In ogni progetto vi sono differenze enormi che regolarmente mi portano a non riascoltare mai i dischi una volta pubblicati. Pop Corn Reflections è , al momento, il culmine di un percorso che sento ancora essere ben lontano dall'esaurirsi.

Un disco in trio, la forma classica del jazz, sempre però in continuo rinnovamento, e con una parte dedicata alla composizione molto più ridotta rispetto al tuo recente passato, con quali ingredienti hai basato la tua sfida?

Una parte molto importante l’ha certamente avuta la curiosità. Sono sempre stato molto incline alla noia repentina per cui ho sempre bisogno di esplorare e imparare cose diverse. La formazione del trio è certamente una delle più stimolanti e difficili che ha regalato nel tempo esempi di livello ineguagliabile, basti pensare a Bill Evans, Keith Jarrett, Paul Bley o in tempi più recenti a Craig Taborn o Vijay Iyer. Tuttavia ho sempre notato come la maggior parte dei trii con pianoforte avesse comunque una sonorità abbastanza identificabile. Questo disco dunque ha rappresentato anche una sorta di sfida nel tentare di trovare un "suono" nuovo di gruppo. Complice, in questo, è stata la consapevolezza di come l'approccio utilizzato del pattern con caratteristiche ogni volta diverse risultasse applicabile a qualunque organico, consentendomi così una certa libertà di azione dal punto di vista della gestione sonora. Questo mio trio con Paolo Dassi al contrabbasso e Riccardo Tosi alla batteria esiste da diversi anni. Nel tempo abbiamo raggiunto e consolidato una forte intesa sia sul piano umano che su quello professionale, che si è rivelata elemento indispensabile per la realizzazione di questo lavoro impostato prevalentemente sull'improvvisazione.

Come e quando ti sei scoperto musicista jazz?

La musica è presente nella mia vita sin da quando avevo 2 anni e all'inizio era un semplice gioco. Dai 7 anni in poi divenne una passione indirizzata al rock che tuttora va avanti. Verso i 17, per caso, un mio amico mi fece ascoltare Head Hunters di Herbie Hancock e provai una sensazione che raramente ho poi riprovato: non riuscivo a credere alle mie orecchie. Non immaginavo potesse esistere una musica così bella. Intorno ai 20 anni ho iniziato a studiare pianoforte jazz seriamente e, successivamente, la passione è diventata anche un lavoro. Quando scoprii che questo poteva tornare a essere anche un gioco che presupponeva coraggio, creatività e impegno ho registrato il primo disco. Da allora vado avanti così, con la speranza che questo gioco non finisca mai.

Chi, musicalmente parlando, ti ha dato qualcosa che non abbandonerai mai?

Nella musica ho un sistema molto semplice: mi lascio guidare dallo stupore. Ci sono dei musicisti che ti trasmettono immediatamente qualcosa, sorprendendoti. Non è un fattore legato all'abilità tecnica, è una questione di profondità e di visione della musica. Uno dei primi in questo senso è stato Salvatore Bonafede. Ho avuto modo di conoscerlo tanti anni fa quando parallelamente all'università di architettura frequentavo il corso di piano jazz al Brass Group di Palermo. Salvatore tenne lì una master-class. Mi risultò subito evidente che possedesse qualcosa di speciale, forse perché riusciva a rendere semplice quello che spiegato da altri sembrava così complicato. E poi mi sembrava "strano" il suo modo di suonare, così diverso eppure così jazz. Questa è stata la caratteristica che ho sempre ricercato e che più mi è rimasta, anche nei 4 anni in cui ho studiato con lui. Per motivi molto simili, altre grandi influenze sono state per me Herbie Hancock, Franco D'Andrea e Martial Solal.

Quando improvvisi emerge di più la parte conscia o quella inconscia?

Improvvisare è come parlare, nel tentativo di raccontare storie emozionanti. Se però non si pensa a quello che si dice il rischio di dire sciocchezze diventa molto alto. Per questo l'improvvisazione richiede molto studio e disciplina nel riuscire a non permettere alle mani di muoversi da sole sulla tastiera. In Pop Corn Reflections, inoltre, è al contempo struttura compositiva, quindi molto rigorosa per essere più intellegibile.

Cosa ti aspetta e come vedi la trasposizione live di questo album?

Abbiamo strutturato il live in modo da renderlo ancora più d'impatto grazie all'ausilio di loop station e computer che permettono di "improvvisare" anche le parti elettroniche in tempo reale. Dal vivo chiaramente i brani tendono a dilatarsi e ad assumere forme ancora più inaspettate. La presentazione in prima nazionale è avvenuta il 21 marzo, la stessa data di pubblicazione dell'album. Ho avuto il piacere e l'onore di poterlo presentare nel prestigioso Teatro V. Colonna di Vittoria in provincia di Ragusa, la mia città. Devo dire che è stata un'esperienza sorprendente, soprattutto perché una musica così particolare è stata accolta con enorme consenso da un pubblico composto per lo più di non addetti ai lavori.