Raffaello Pareti è uno di quelli che vive nella musica. Me ne accorgo subito quando ci parlo chiamandolo a Poggibonsi, in provincia di Siena, al telefono fisso della scuola civica di cui è direttore, anche se l’attività di docente vera e propria la svolge al Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze, dove insegna contrabbasso jazz. Nel frattempo suona in giro (l’impegno più recente è per lo spettacolo Otto storie poco standard con Monica Demurru e Alessandro Marzi), compone, guida uno dei quartetti più interessanti che siano in circolazione, immagina collaborazioni future, allestisce spettacoli con i giovani studenti, e non si stanca mai quando si tratta di parlare di musica.

L’idea per l’intervista nasce da uno dei migliori concerti a cui ho assistito negli ultimi anni, quello del gruppo The Roar at The Door, che lo vede a fianco di Francesco Bearzatti (sax), Mauro Ottolini (trombone) e Walter Paoli (batteria) al Serravalle Jazz, a fine agosto. In quell’occasione ai quattro componenti fissi della band si era unito il prodigioso chitarrista franco-vietnamita Nguyen Lè, alzando ulteriormente il livello di qualità e libertà espressiva di una formazione già di per sé pronta a liberare la fantasia dei suoi componenti.

“Quello che mi ha impressionato di più di Nguyen” – sono le prime parole di Pareti, che tutti i jazzofili conoscono come Lello – “è stata la sua professionalità. Gli avevo mandato qualche settimana prima di incontrarlo alcuni mp3 dei brani che pensavamo di suonare al festival. Quando è arrivato mi sono reso conto che se li era studiati con grandissima attenzione, e così quando ci siamo attrezzati per una breve prova a Prato, a casa di Walter Paoli, dopo poche battute Nguyen sembrava uno di noi, un componente stabile del gruppo. Sono bastate quelle due ore, e poi un soundcheck un po’ più lungo del normale il giorno dell’esibizione, per inserirlo perfettamente, naturalmente con le sue caratteristiche, nella nostra musica. Oltre a questo, ho conosciuto una persona pazzesca, che non ha creato problemi, un antidivo per eccellenza con una straordinaria capacità di entrare subito in relazione con gli altri. Alla fine ci ha detto che è stato con noi molto volentieri e che si è divertito tantissimo. Dopo qualche giorno gli ho scritto e stiamo pensando di intensificare le collaborazioni con lui”.

The Roar at The Door, anche a detta dello stesso Nguyen Lè, si distingue dalla maggior parte dei gruppi per la sua coesione: non siete quattro musicisti che si ritrovano occasionalmente, ma un quartetto che punta molto sull’affiatamento.

In effetti ormai dopo cinque anni l’intesa è notevole, ed è vero che molto spesso mentre stiamo suonando non sappiamo esattamente come arriveremo al brano successivo. Spesso prendiamo strade che non abbiamo mai percorso prima di quel preciso momento, e per farlo è ovvio che tutti dobbiamo sempre stare con le orecchie dritte. Chiunque di noi ha sempre facoltà di buttare un’idea nel bel mezzo di un brano, che difficilmente sarà uguale alla volta precedente in cui l’abbiamo suonato. Quando qualcuno parte con una di queste idee, gli altri si aggregano, la rinforzano, e si apre un dialogo che si arricchisce continuamente.

Questo succede nei concerti o anche quando registrate?

Dal vivo è naturale che succeda, ma anche quando stiamo registrando capita. Ad esempio nel nostro ultimo disco c’è un pezzo che ho intitolato Effetto Otto, dedicandolo a Mauro Ottolini. Bene, non era previsto che a un certo punto Bearzatti cambiasse il tempo e poi la tonalità. Lo ha fatto all’improvviso, e noi gli siamo andati dietro. E’ superfluo dire che questo tipo di improvvisazione non dà sempre un risultato compiuto, ma è normale che sia così, e quando invece questo risultato arriva è bellissimo.

Immagino che sia divertente e allo stesso tempo impegnativo stare dietro a Ottolini e Bearzatti che si inseguono e dialogano continuamente.

Il valore di questi due musicisti credo che ormai sia assodato e noto a tutti. Ecco, per me sentirli dire che questo quartetto suona una musica per la quale provano un fortissimo senso di identificazione è un piacere enorme! Suonare con loro e con Walter Paoli, che è un fratello, è una delle cose che mi rende felice di fare questo mestiere. Lo dico perché lavorare in questo ambiente non è sempre facile: trovare concerti è molto faticoso, a meno che tu, entro i 25 anni, non ti sia già conquistato la noterietà di Fresu o di Bollani, notorietà che va ben al di là dei confini ristretti degli appassionati di jazz. Dal punto di vista del “mercato” I'm not in that class, ma per fortuna non mancano i riconoscimenti dei musicisti che stimo così come del pubblico e della stampa specializzata. Anni fa Downbeat inserì il mio Il Circo tra i dischi più importanti usciti tra il 2000 e il 2010. Quell’album aveva avuto 4 stelle e ½ su una rivista di importanza mondiale. Quando successe pensai: e ora? Non potrò mai fare meglio. Allo stesso tempo però era bello pensare che, se fai qualcosa di buono, questi americani, che vivono dove questa musica è nata e dove tutto è successo, se ne accorgono e te lo dicono.

Hai dischi in uscita o appena arrivati nei negozi?

Non sono mai stato uno che pubblica molti dischi. Il secondo di Roar at The Door, Il mondo che verrà, è uscito a gennaio, ed è il lavoro più recente. L’idea al momento è di farne abbastanza presto un altro con questa formazione, vediamo se ci saranno collaborazioni importanti.

Il tuo ruolo è anche quello di compositore. Quanta parte della tua energia è assorbita dalla scrittura?

La composizione è stata da subito un aspetto molto importante della mia attività di musicista e non è mai stata limitata al solo ambito della musica jazz, mi è sempre piaciuto spaziare. In fondo ho cominciato a studiare seriamente musica da grande, la mia formazione giovanile è avvenuta con la canzone, ho ascoltato di tutto, dai Beatles a Stevie Wonder e non ho mai rinnegato il mio amore per la canzone d'autore. A questo proposito, una delle mie ultime incursioni in ambito extra jazz è stato l'adattamento musicale dell'Odissea, uno spettacolo andato in scena di recente al teatro Politeama di Poggibonsi e allestito in collaborazione con la scuola civica di musica di Poggibonsi. Per questo spettacolo ho musicato 13 testi, in gran parte inediti, ed è stata una sfida appassionante. Per la realizzazione di Le donne di Ulisse, questo il nome dello spettacolo, ho lavorato con grandissima passione e il risultato è stato sorprendente anche grazie alla partecipazione di Irene Grandi che ringrazio ancora una volta pubblicamente. Sto lavorando per proporlo nel circuito dei teatri. Vediamo.