Uno degli ingredienti principali della musica di Keith Jarrett all’Opera di Firenze il 23 novembre è stato il silenzio. Il pubblico ha iniziato a fare “shhhhh” diversi minuti prima che il grande pianista entrasse in scena, e a un certo punto, contando qualche minuto di ritardo, qualcuno cominciava a temere che non si sarebbe affacciato finché l’ultimo ronzio di mosca non fosse sparito. Non vorrei fare il solito pezzo sulle paranoie e le fissazioni jarrettiane, come ne ho letti diversi in questi giorni. Ma di quel silenzio devo parlare, perché oltre a essere quasi irreale e senza paragone nella mia carriera di spettatore, quel silenzio, che faceva sentire perfino il rumore sordo e debolissimo del riscaldamento, era del tutto complementare alla musica. Del resto, gli unici microfoni davanti al pianoforte servivano a Keith per registrare la performance, mentre il suono arrivava ai milleottocento del nuovo teatrone fiorentino senza alcuna amplificazione. Ogni volta era stranissimo sentire uno scroscio impetuoso di applausi che si troncava senza sfumare, di botto, non appena il protagonista si avvicinava al panchetto. Quel silenzio, dicevo, era la bilancia perfetta per pesare ogni singolo tocco sui tasti, una specie di vuoto in cui le nostre vite esistevano solo per conoscere le scelte che Jarrett faceva da un istante all’altro.

Il concerto, stando ai pareri raccolti all’uscita, è generalmente piaciuto, e molto. Prima dell’inizio l’altoparlante aveva annunciato che si sarebbe trattato di “totale improvvisazione”, e lungo la schiena di molti, a cominciare dalla mia, è corso un brivido di godimento pensando ai miracoli immortalati su dischi come The Köln Concert o La Scala, per citarne un paio. In realtà, al posto delle montagne scalate in quelle – e in altre – occasioni, cioè brani molto lunghi in cui una delle sfide era non perdere mai l’ispirazione e mantenere la coerenza all’interno di ogni singola parte, a Firenze abbiamo ascoltato molti pezzi, tutti piuttosto brevi, che hanno spaziato senza timore fra i generi e hanno toccato sensibilità diverse custodite dal genio di Jarrett. Diciamo subito che per qualcuno questo è stato un punto debole: improvvisazioni accorciate per fare i conti con un’ispirazione altalenante. Per me è difficile sbilanciarmi su questo: non mi aspettavo fin dall’inizio i “miracoli” di cui parlavo prima, e ho avuto l’impressione che, nonostante la brevità, tutte le proposte partissero da un’idea solida, portata avanti con la consueta padronanza della creazione estemporanea. C’era del mestiere, in quella musica? Ovviamente sì, lo do per scontato, ma sono stati molti i momenti in cui la musica ha illuminato a giorno la sala, in realtà quasi completamente al buio. Anche se fosse stato solo per quei lampi di classe cristallina improvvisi, sarebbe valsa la pena esserci.

Ma non c’è stato solo quello, per fortuna. Si potrebbe aggiungere intanto che la tecnica di Keith Jarrett, nonostante i settant’anni, è ancora straordinaria, e messa in mostra fin dal primo brano, uno dei più difficili sia da suonare che da digerire in tempo reale, in cui ha mantenuto un ritmo sempre forsennato. Poi si potrebbe continuare dicendo che, se non tutti i brani sono sembrati sostenuti dalla stessa ispirazione, alcuni hanno sbalordito il pubblico. Per esempio il primo dopo l’intervallo, uno dei più compiuti, forse perché anche uno dei più melodici. E anche quando si è affidato a un blues, peraltro senza smontarlo come avrei immaginato, Jarrett ha dimostrato come sia difficile alzare steccati tra la musica colta contemporanea, il jazz, la melodia, e la musica nera. Era blues, era poesia, era un’interpretazione che rispettava alla lettera l’anima di quella tradizione, e allo stesso tempo la spogliava di ogni decorazione superflua, per leggerla così come avrebbe sempre dovuto essere scritta e suonata.

Poi naturalmente le paranoie ci sono: tralasciando il ridicolo avviso sul divieto di tossire, ci sono state prima le ripetute lamentele per quell’aria fredda sul collo (con una breve critica alle sale da concerto moderne, tanto per sistemare subito i padroni di casa), poi la paternale fatta all’unico sconsiderato che, sprezzante del pericolo, ha scattato una foto mentre Jarrett si avvicinava al microfono (chissà cosa avrebbe detto senza quello scatto, non lo sapremo mai). Eppure resto dell’idea che se si va a un suo concerto, conviene portarsi le caramelline per la tosse e lasciare fotocamera a casa e telefono in tasca. Si sta per assistere a una performance unica, irripetibile, che comincia e finisce nel momento stesso in cui le note interrompono il silenzio di cui dicevo prima, per poi lasciargli di nuovo il posto. Per questo non mi sono sentito di criticarlo, quando ha detto: “Quando sarò morto potrete venire qui e fare tutte le foto che volete”. E per questo non trovate una foto del concerto di Firenze a corredo del mio articolo.