Si concluderà in Italia con cinque date fra maggio e giugno (a Milano, Padova, Firenze, Roma e Bari) il nuovo tour europeo degli Yes. Nonostante il vuoto incalcolabile causato lo scorso anno dalla scomparsa del bassista e fondatore storico Chris Squire, l’occasione di vederli sul palcoscenico si rivela ancora una volta unica, non soltanto per i fan del gruppo o più in generale del progressive, ma per tutti gli amanti della musica assetati di belle note e curiosi di scoprire come queste in taluni casi abbiano contribuito a passaggi epocali, trasformazioni e nuove mode sonore.

Entriamo nello specifico. Il materiale assemblato per gli spettacoli in questione, progetto fortemente voluto da Squire e nato insieme a lui (motivo che ne fa quindi una sorta di testamento artistico), prevede l’esecuzione per intero di due album, in un certo senso gli estremi del periodo considerato “classico”: Fragile (1971) e Drama (1980). Un connubio interessantissimo, anzi geniale, in quanto se il primo è ritenuto uno dei pilastri del rock sinfonico e un “must” di ogni discografia che si rispetti, il secondo, quello di cui andremo a parlare, rappresenta l’opera fondamentale che nessuno ha mai menzionato. E il motivo di ciò è semplice, ma per comprenderlo occorre fare un salto indietro di 36 anni.

Torniamo dunque al 1980 e agli Yes che sul principio non ci si sarebbe mai aspettati: una formazione infatti che toglie due cardini come il cantante Jon Anderson (cofondatore del gruppo insieme a Squire) e il mago delle tastiere Rick Wakeman (all’epoca appena reintegrato in squadra), nell’immaginario di ogni fan dell’epoca doveva essere apparsa come un’anomalia eccessiva, qualcosa a cui mancavano due segnali di identità troppo forti per poterci passare sopra. Verissimo che la band è sempre stata incline ai cambiamenti e che anche la line-up “classica” giunse in realtà al quarto disco (Fragile, appunto), per mutare poco dopo nuovamente, sostituendo prima il batterista (Alan White al posto di Bill Bruford) e poi il tastierista (Patrick Moraz al posto di Wakeman).

Quello che però alla fine era sempre stato garantito di album in album e di tour in tour era un certo “ambiente sonoro”, all’interno del quale la voce e i versi mistico-visionari di Anderson fungevano da guida e da centro da cui partivano e a cui tornavano le lunghe cavalcate strumentali. Una vocalità peraltro talmente particolare, un rarissimo “soprano maschile”, che non poteva evitare di diventare per il pubblico l’elemento immediatamente più riconoscibile dietro la sigla Yes. La difficoltà maggiore dunque era, più ancora che salutare un’altra volta Wakeman, capacitarsi di una voce diversa a capo della compagine progressive per eccellenza. La frattura però che si era creata con Anderson e Wakeman a causa di divergenze artistiche (e, col cantante, si dice anche economiche) non lasciava altra scelta al nucleo costituito da Chris Squire (basso), Steve Howe (chitarra) e Alan White (batteria) se non quella di andare avanti e cercare un nuovo cantante e un nuovo tastierista.

Peccato per le Paris Sessions dirette da Roy Thomas Baker (produttore, fra gli altri, per Queen, David Bowie, Free, The Cars, …) che furono drasticamente interrotte, ma il clima all’interno del quintetto era divenuto insostenibile. Seguirono quindi alcune registrazioni in trio nell’attesa di capire come fare ad uscire dall’impasse angosciante di quella situazione, tanto più che sul nuovo disco c’era già molta attesa da parte dei fan e che era stato perfino pianificato un tour che avrebbe toccato USA e UK. Un vero e proprio “dramma” insomma (e il nome del disco non è a caso), ma, a differenza della tragedia, il dramma si contraddistingue per il lieto fine.

Ecco allora che il duo conosciuto come The Buggles, che si era ritrovato in cima alle classifiche di molti paesi con il tutt’oggi famosissimo pezzo Video Killed The Radio Star, di colpo ha la necessità di un manager che li aiuti a gestire il successo e decide di rivolgersi a Brian Lane, lo stesso degli Yes. L’incontro con Squire avviene di lì a poco e Trevor Horn e Geoff Downes, guarda caso un cantante (nonché bassista) e un tastierista, dopo una prova col trio superstite vengono assoldati e integrati in qualità di membri stabili. Horn fra l’altro era un fan sfegatato degli Yes e non poteva crederci: cantare insieme ai suoi idoli e prendere il microfono che fu di Jon Anderson gli sembrava un sogno, qualcosa di talmente grande da far relegare in secondo piano, e senza tanti ripensamenti, la propria carriera appena decollata.

La formazione, non c’è dubbio, è aliena, e a tratti spiazzante, soprattutto per chi nella testa cerca di mettere insieme e immaginarsi il fenomeno new wave del momento fare squadra con uno dei suoni più nobili e caratteristici dell’ultimo decennio di rock. Eppure non solo funziona (e, senza saperlo, su disco si ha quasi l’illusione di ascoltare Anderson e compagni lanciati verso nuovi spazi sonori col proprio marchio inconfondibile), ma vengono addirittura sparsi i semi di quello che nei primi Ottanta sarà un genere di enorme successo, una sintesi di AOR (adult oriented rock) e di “prog pop”, di cui fra l’altro proprio gli Yes della successiva formazione con Trevor Rabin, Tony Kaye e il ritrovato Anderson (oltre a Squire e White), saranno tra i maggiori beneficiari.

Confezionato in una splendida copertina di Roger Dean (l’autore di tutte le più celebri grafiche degli Yes che non ne firmava più una per il gruppo dal 1975) e con il ritorno alla produzione sulle backing tracks di Eddie Offord (tutti motivi dunque a favore dei vecchi fan), Drama è il progressive che si stringe per entrare nella canzone pop, e lo fa con gran classe e senza rinunce, con la spinta fiduciosa di sopravvivere alla nuova ondata post-punk che, come e più del genere capostipite di tale rivoluzione, stava condizionando i gusti di chi cominciava ad avvicinarsi alla musica.

Il motivo per cui quest’album è un capolavoro è perché è perfettamente bilanciato fra le due epoche: tiene fede al nome che reca sopra grazie a suite e a mirabolanti introduzioni di puro rock sinfonico e addita un futuro prossimo con “ganci” melodici, metriche e modi di scandire le parole che saranno propri del synth-pop a venire. I testi poi evitano il confronto con quelli filosofici di Anderson e trattano di sentimenti, società e cronaca, con tono poetico ma diretto, consentendo un’identificazione da parte di chi ascolta.

La voce di Trevor Horn alla fine è perfetta, sia da sola che quando viaggia insieme ai cori di Squire e Howe: l’atmosfera Yes è garantita in entrambi i casi e non c’è in alcun modo la sensazione di imitazione, è più un discorso di umiltà, devozione ed entusiasmo del cantante ad accendere questa magia. Geoff Downes ha uno stile pulito, veloce, preciso e sempre funzionale al pezzo: si potrebbe quasi dire che sceglie una via “bachiana” rispetto al virtuosismo romantico “à la Wakeman”. Molto belli inoltre i suoni (fra cui il vocoder) che aggiunge al campionario Yes in modo del tutto naturale, senza forzature. Anche i contributi compositivi (per quanto tutti i brani risultino firmati dal nuovo quintetto al completo) di Horn e Downes sono di altissimo livello e si fondono a meraviglia con quelli provenienti dalla ditta Howe-Squire-White. White Car e Into The Lens sono difatti due punti altissimi; la prima funge pure da singolo (e l’anno dopo sarà reincisa in una versione più pop proprio da The Buggles) ed è forse il momento spartiacque per eccellenza di Drama. Il prog va invece a testa altissima con Machine Messiah (leggete anche il testo, attualissimo, sull’avvento delle macchine), una delle composizioni più belle di tutto il catalogo “Yes”.

Fra le sorprese di questo album troviamo pure un pezzo in cui Horn, oltre a cantare, suona il basso e Squire, all’epoca per la prima volta, cede il suo strumento per sedersi al piano: Run Trough The Light (estratto anche come secondo singolo, ma soltanto promozionale e non per la vendita). E se Does It Really Happen? è prog venato di funky, con in più una stupenda sezione “a cappella”, Tempus Fugit è art-rock che diventa inno: nei versi compare anche la parola “Yes” esclamata con decisione, come a rivendicare il proprio posto.

Il disco andrà benissimo in patria e meno bene negli USA, mentre per quanto riguarda il tour si invertiranno un po’ le cose (memorabile la tripletta di sold out al Madison Square Garden per cui il gruppo ottenne anche un riconoscimento). La storia di questi nuovi e particolarissimi Yes purtroppo terminerà con il suddetto tour, lasciando orfana tutta una schiera di nuovi fan (i cosiddetti “panthers”, chiamati così per le pantere che figurano in copertina), però la sua lezione è grandissima e oggi può venire compresa e apprezzata a dovere.

Horn (dopo un nuovo album come The Buggles nel 1981) si dedicherà poi soprattutto alla produzione ed è incredibile pensare che curerà in questa veste pure il disco di maggior successo commerciale degli Yes, quel 90125 del 1983 capitanato dal singolo Owner Of A Lonely Heart, disco che vide il ritorno di Anderson e l’uscita dal gruppo di Howe e Downes (che andranno a formare gli Asia). Nel 2011 produsse anche Fly From Here, il primo album dopo Drama con un cantante diverso da Jon Anderson. Il disco in questione riprende già nel titolo (e sviluppa al suo interno) una delle due canzoni (l’altra era Go Trough This) rimaste fuori da Drama ed eseguite solo live: We Can Fly From Here.

Questo a ulteriore dimostrazione di quanto avanti guardasse quel disco. Sul palco del nuovo tour del 2016 una formazione che appartiene alla storia degli Yes e che non deluderà in alcuna maniera: Jon Davison alla voce (con gli Yes dal 2012, insieme hanno registrato l’album di inediti Heaven & Earth), Steve Howe alla chitarra, Billy Sherwood al basso (incaricato da Squire stesso e nelle fila degli Yes dal 1991), Geoff Downes alle tastiere e Alan White alla batteria. È emozionante immaginare il rito collettivo che accompagnerà l’esecuzione di Fragile, con brani che solo a pensarli viene la pelle d’oca (Roundabout, Long Distance Runaround, Heart Of The Sunrise, … ), e accanto ad esso il nuovo debutto live di Drama, assente da tantissimo tempo dai concerti (eccezion fatta per un paio di pezzi ripescati dopo l’uscita stabile dal gruppo di Jon Anderson): un fantastico esperimento che è anche un atto di giustizia. Non resta che aspettare maggio.