“Ma lei non sa che cos’è l’uomo medio: è un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. Che goduria essere Orson Welles in un film di Pier Paolo Pasolini (La ricotta, episodio di Ro. Go. Pa.G, produzione del 1963 a quadrupla firma: Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti) e poter dire che l’uomo medio è un mostro.

Pasolini non è stato un uomo medio. Ma la regista teatrale e attrice “in sonno” Rita Maffei non si preoccupa di descrivere o giudicare lo scrittore, il poeta, il regista, la coscienza critica del Paese, il chiaroveggente della società futura, lo scandalo vivente, il morto ammazzato, lo sceglie solo come compagno di viaggio e invita cinque interpreti duttili e infaticabili e poche centinaia di spettatori a compiere lo stesso percorso in uno spazio scenico ideato da Luigina Tusini, dove il pubblico siede come in un compartimento ferroviario. Al posto dei finestrini, un’immagine video filmata da un treno in movimento e proiettata sul muro, alternata a spezzoni di film e interviste. Sul pavimento tanta sabbia, il simbolo della fine di PPP a Ostia, in una notte d’autunno del 1975. Una notte sbagliata, citando De André che, con Massimo Bubola, ha dedicato all’uccisione di Pasolini una delle sue indispensabili canzoni, Una storia sbagliata.

Il Treno, prodotto dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia e andato in scena al Palamostre di Udine, non è uno spettacolo: è un’esperienza in dodici tappe pari alla durata del viaggio dalla stazione di Casarsa a Roma che Pasolini fece con la madre Susanna il 28 gennaio del 1950, dopo essere stato cacciato dalla scuola dove insegnava e dal Partito Comunista, per omosessualità. Quasi cinque ore da vedere a teatro in più volte, come una serie a puntate, o tutto d’un fiato, in una maratona.

Il Treno ha un prologo e vari gruppi di episodi: I suoni, I viaggi degli altri, Le immagini e un epilogo intitolato Una disperata vitalità. Angela Felici, direttrice del Centro Studi Pasolini di Casarsa, è la consulente scientifica, il disegno del suono è di Renato Rinaldi, le immagini e i video sono di Cinemazero-Riccardo Costantini, le riprese video di Tommaso Lessio, la violinista dal vivo è Arianna Calabretto.

Ai valorosi protagonisti, i tre attori di intensità perforante Gabriele Benedetti, Emanuele Carucci Viterbi, Paolo Fagiolo e i due di intensità acerba Irene Canali e Giuseppe Attanasio, neodiplomati all’Accademia Nico Pepe, la regista ha chiesto molte cose ma non troppe. Tutte quelle cose che ha voluto mettere nella sua creatura teatrale la quale “riflette sul cambiamento e dal suo dispositivo scenico suggerisce e rivolge allo spettatore cruciali interrogativi esistenziali”.

Rita Maffei ha chiesto ai suoi cinque di essere viaggiatori sia con un bagaglio interiore che con una valigia piena di oggetti; ha chiesto di rivelarsi raccontando un proprio viaggio, e non certo quello per andare a svagarsi in Riviera. Ha chiesto di essere vicinissimi agli spettatori, spesso a qualche decina di centimetri, di guardarli negli occhi, coinvolgendoli senza violarne l’intimità; ha chiesto di camminare, di correre nello stanzone-palcoscenico, ha chiesto di recitare lettere e testi di Pasolini, di porgerne la lungimiranza sul consumismo avvolgendosi la testa nella pellicola trasparente, quasi soffocando; di immedesimarsi della sua sessualità vissuta all’ultimo sangue eppure odiata, come scrisse nel Cinquanta all’amica amorosa Silvana Mauri: “[…] Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale. La mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro”.

Il fatto speciale di questo viaggio sul treno di Rita Maffei è che avere Pasolini per ore nel vagone non comporta apprezzarlo o non apprezzarlo, conoscere parecchio di lui o piuttosto poco: la regista compie il prodigio di fare tabula rasa del risaputo e di presentare al pubblico un essere umano nuovo anche se composto di tessere già note. L’ideale ispiratore per affrontare il nostro viaggio e rispondere alle domande: Dove va il tuo treno? Perché vuoi partire? Perché non sei partito? Da cosa fuggi? Cosa cerchi? Centinaia di spettatori del Teatro Contatto di Udine hanno risposto a queste domande prima del debutto del Treno. Le loro risposte, scritte su foglietti bianchi, pendevano dal soffitto dello spazio scenico. Suggestivo vederle e leggerle.

Per resuscitare l’espressione malandrina di Orson Welles e il lato aspro di Pasolini forse bisogna ammettere che alcune risposte sono da… uomo medio. Ma la Maffei ci fa capire che quando l’uomo medio si mette in viaggio dentro di sé non è più un mostro.