Il contrabbasso è uno strumento difficile per quanto affascinante, e se un musicista decide di cimentarsi in un album in solitario deve avere come minimo le idee chiare. Prova ampiamente superata per Marco Bardoscia, salentino di stanza a Bruxelles, dove ha fissato la sua residenza da qualche tempo, che ha pubblicato di recente “Tutti Solo” (Off Record Label), un disco godibile e coraggioso imperniato nella maggior parte su suoi originali, inframezzati da un paio di standard e un canto tradizionale.

Ce ne parla con legittima soddisfazione mentre è ormai prossima la pubblicazione di un altro disco per la Tuk Music di Paolo Fresu, musicista dalla fama planetaria ma discografico illuminato: specie quando è il caso di un talento da evidenziare. “Con Tutti Solo" - ribadisce - "ho concesso spazio al desiderio di confrontarmi con me stesso attraverso il mio strumento: avevo voglia di produrre un lavoro che non fosse urlato ma sussurrato, una sorta di manifesto della semplicità e un invito all’ascolto attento. Nel caso del contrabbasso, è la stessa dinamica dello strumento che lo richiede. Un altro obiettivo era emancipare il materiale musicale da una dimensione di 'intrattenimento', senza cadere nello sperimentalismo a tutti i costi, ho immaginato di condurre l’ascoltatore (non tanto l’addetto ai lavori) attraverso lo svolgimento dell’intero disco come attraverso una storia focalizzando l’attenzione sul suono. Dal punto di vista della realizzazione l’aspetto più difficile è stato scegliere il materiale, prendere ciò che sentivo più vicino a me e che fosse al contempo funzionale al progetto. Ci sono dentro canzoni, improvvisazioni libere e composizioni originali che, a parte l’ultima traccia costruita con alcune sovraincisioni, ho scelto di registrare senza mai utilizzare overdubbing o pedali o elettronica, tutte cose con cui invece lavoro molto nei concerti".

Quando e come ti sei scoperto jazzista e quali sono stati i tuoi primi modelli?

Ho scoperto il jazz per caso ascoltando una cassetta di uno dei miei tre fratelli. Da qui a diventare jazzista, invece, le cose si complicano un po’. So che a un certo punto avevo quel modo di approcciare e di pensare la musica che viene chiamato jazz e che secondo me più che un genere musicale è uno stile di vita, una forma mentale che ti accompagna per tutta la vita. Non esistono solo i musicisti jazz ma anche i fotografi, i giornalisti, i panettieri… i farmacisti jazz. I miei primi modelli, da un punto di vista strumentale, sono stati Paul Chambers e Ray Brown ma in realtà solo perché il mio viaggio è iniziato da loro, li ho scoperti prima di altri. In seguito mi hanno appassionato bassisti come Eddie Gomez, Dave Holland, John Patitucci e molti altri. Altri riferimenti da cui sento di aver preso influenze diverse sono grandi musicisti come Miles, Coltrane e Monk e un grande contrabbassista e compositore come Mingus, vero titano.

Il suono rappresenta un tratto distintivo di ogni musicista, tu come sei riuscito a calibrare il tuo?

Il suono, a mio avviso, è qualcosa che nasce nella testa e si trasforma in vibrazione tramite lo strumento e il nostro corpo. Mi piace la parola che hai usato; “calibrare” in effetti è proprio il verbo giusto. “Misuro” il peso, la forza e la velocità del movimento per ottenere diversi tipi di suono. Altra parola chiave è “gesto”: negli ultimi anni mi sono concentrato molto su questo aspetto, ancor più che sulle note. Immagina una pennellata di Van Gogh, la prima cosa che ti colpisce non è il colore ma la forza espressiva con la quale è stato applicato, l’immagine che ho davanti è proprio quella di un gesto appunto. Mi piacerebbe raggiungere quel tipo di forza espressiva.

È così difficile fare questa musica in Italia, che ti sei dovuto trasferire all’estero: cosa hai lasciato e cosa invece hai trovato?

In realtà penso che in Italia il jazz goda di ottima salute, solo che spesso manca il supporto da parte delle istituzioni e il mercato è in una fase di cambiamento, non ci sono più molti club e in generale c’è una diseducazione all’ascolto per vari motivi. La TV e la radio, e non solo a mio avviso, dedicano poco spazio alle musiche “altre” dal pop e se lo fanno è in orari improbabili, per cui posso solo immaginare cosa accadrebbe e quanto aiuterebbe se un giorno a settimana in prima serata la TV proponesse un programma di jazz. Le cose per fortuna stanno lentamente cambiando e da un paio di anni i musicisti di Jazz stanno provando a riunirsi in una grande associazione nazionale, il MIdJ, e si discute per cominciare a cambiare la situazione. Io vivo a Bruxelles da circa sei anni ma l’Italia non l’ho mai completamente abbandonata e consiglierei a ogni giovane musicista di fare almeno un periodo all’estero, è un’esperienza che ti forma sotto molti punti di vista e lo scambio e il confronto sono aspetti fondamentali nell’attività di un artista. Per me vivere in Belgio ha significato molto. Ho conosciuto nuovi approcci alla musica e splendidi musicisti con i quali ho avuto e ho tuttora la fortuna di collaborare, professionisti con un background completamente diverso dal mio con cui scambiare visioni e arricchirsi reciprocamente.

Chi sostiene che l’identità del jazz sia legata a doppio filo con le sue radici afroamericane. Pensi che si debba andare oltre?

Di certo è una questione complessa. È oggettivo che il jazz sia nato in America tra la fine dell'800 e l’inizio del '900, a New Orleans a quel tempo c’erano sì gli africani ma c’erano anche gli irlandesi, i francesi, gli Italiani e molta gente che arrivava dai Caraibi; dire che il jazz sia afroamericano è incompleto, senza contare che da un certo punto in poi i jazzisti americani hanno mutuato concetti e pratiche della musica colta europea e delle avanguardie. Come ho già detto per me il jazz è un’attitudine e non uno stile e trovo in ogni caso inutile una dissertazione in merito; qualora qualcuno si sentisse offeso da tale affermazione rinuncerei serenamente all’appellativo di jazzista per essere un “musicista”.

Penso che Paolo Fresu per te sia più di una guida o di un produttore: come vi siete conosciuti e allargando questo spettro in cui si allude a collaborazioni e progetti in proprio, come avviene l’organizzazione di un tuo ensemble e come ti comporti invece sotto la guida di altri leader?

Conosco Paolo da circa dieci anni. Lo incontrai nel 2006, in Salento, per le registrazioni del primo album di Raffaele Casarano; da allora ho suonato con lui diverse volte ed è sempre bello. Abbiamo avuto modo di conoscerci meglio e poco più di un anno fa mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere registrare un disco con la Tŭk, la sua etichetta discografica, ovviamente gli ho subito detto di sì e insieme al Quartetto Alborada e Rita Marcotulli abbiamo realizzato Trigono, un album che firmiamo tutti e tre insieme e che uscirà a fine maggio. Paolo si è rivelato oltre che un grande musicista anche un produttore attento e meticoloso. L’avventura con lui e la Tŭk sta proseguendo. A fine gennaio mi ha invitato a registrare nel suo disco live alla Casa del Jazz di Roma per la nuova collana di La Repubblica e L’Espresso, in cui ha voluto riunire un ensemble con molti altri musicisti provenienti dall’etichetta. È stato bello. Mi sono sentito a casa. Spesso nel costruire un nuovo progetto mi lascio guidare dai suoni, è lo stesso materiale musicale, infatti, a suggerirmi i giusti interpreti, un po’ come se la musica venisse scritta, inconsciamente, per un determinato musicista. Il più delle volte funziona e, inoltre, l’apporto dei musicisti con cui collaboro arricchisce le composizioni e le rende vive. Diverso è l’approccio come sideman, bisogna rispettare l’idea compositiva del leader conservando la propria identità musicale. In generale, quando si lavora con partner di cui ci si fida, sia come leader, sia come sideman, il tutto viene abbastanza naturale.

Per i giovani è comunque piuttosto difficile imporsi, chi ti piace fra i tuoi colleghi?

Per i giovani è un momento difficile, bisogna saperlo e non arrendersi, sta a noi, tutti, fare qualcosa per cambiare le cose, lamentarsi senza aggiungere altro non serve a molto. Tra le nuove generazioni ci sono molti musicisti interessanti e preparati tra questi, oltre a due amici come Raffaele Casarano e Luca Aquino, che cominciano ad essere già abbastanza conosciuti, ci sono tanti giovani che meritano attenzione, penso a Matteo Pastorino e William Greco ma la lista è molto lunga.

A che punto ti senti della tua evoluzione personale come musicista?

Non saprei risponderti, so che ci sono molte cose che mi interessano e mi diverto a suonare e credo che continuerò a farlo fino a che sono in vita.

Cosa ti aspetta da qui all’estate?

Soprattutto concerti, passando da Umbria Jazz a una nuova full immersion per sostenere il bellissimo Locomotive Festival che sta crescendo di anno in anno. Il 20 maggio uscirà Trigono di Bardoscia-Alborada-Marcotulli, ed entro la fine dell’anno anche il disco di un altro progetto live CBS - The great jazz gig in the sky, rilettura dell'immortale The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd insieme a Raffaele Casarano e a Boris Savoldelli, un progetto che amo molto. Nel mentre ho iniziato a scrivere nuova musica per qualcosa che vedrà la luce nel 2017.