«Piccola stella ti affido la mia musica, va e falla brillare nel cielo laddove la follia umana è solo un brutto ricordo», dal disco Noé.

In pochi conoscerebbero il paesino di Berchidda, un abitato di poco più di 3.000 anime situato nella Sardegna del Nord, se non ci fosse nato nel 1961 il musicista Paolo Fresu. Eppure il luogo, che sorge ai piedi della catena del Limbara, non sarebbe privo di attrattive. È vero che chi sbarca sull’Isola è spesso richiamato dalle spiagge candide e dal mare cristallino, ma il vero viaggiatore conosce e apprezza anche gli spazi selvaggi raggiungibili in breve tempo dalle più ambite coste.

Siamo nel Logudoro, in quella zona denominata Monte Acuto che prende il nome dal castello giudicale edificato a Berchidda nel XIII secolo. Si respira un’aria purissima per via della rigogliosa vegetazione del Limbara che con la punta Balestrieri raggiunge i 1.362 m. «Il granito, le rocce modellate dalla natura, i grossi massi scavati che formano vere e proprie grotte utilizzate in diverse epoche come sepolture, abitazioni e ricovero di animali», potrebbero essere un richiamo per il turista interessato alle Domus de Janas, ai Dolmen e ai Nuraghi, silenziosi testimoni di una feconda Preistoria.

È stato, invece, il nostro trombettista a rendere Berchidda nota in tutto il mondo grazie al Festival Time in Jazz, nato nel 1988 dalla sua passione e dal suo estro. Si tratta di uno degli appuntamenti più apprezzati nel panorama nazionale della musica dal vivo. Ogni edizione ruota intorno a un tema differente, che caratterizza il suo cartellone: nell’estate 2015 la 28° edizione era intitolata Ali. Ed è tra i silenzi di queste pietre e tra le nebbie che salgono discrete dal vicino lago Coghinas, che ha messo le “Ali” alla sua tromba il nostro artista iniziando a soli undici anni nella Banda del paese “suonando musiche strane senza senso”.

Non intendiamo rivelare dei suoi successi nazionali e internazionali, dei suoi 350 dischi, dei suoi 3.000 concerti, dei numerosi premi conquistati, non vogliamo riferire dei suoi virtuosismi o dell’eleganza del suo suono, tanti lo hanno fatto - profondi conoscitori della musica e del jazz - prima di noi e non abbiamo nemmeno la pretesa di presentarlo agli appassionati che già lo conoscono, lo amano e ne divorano le musiche. Intendiamo, piuttosto, scoprire l’uomo, il mistero di un personaggio che, al di là delle sue doti e talenti, è riuscito a trasformare la sua vita nel sogno che ognuno di noi rincorre: fare in ogni momento quello che ci appassiona e desideriamo.

La cosa curiosa è che la tromba è capitata nelle mani di Paolo quasi per caso. La famiglia ne aveva acquistato una per il fratello Antonello che doveva suonarla nella banda del paese. Invece la tromba è rimasta inutilizzata, abbandonata in un angolo polveroso: il giovane Antonello ha poi lasciato il paese per dedicarsi agli studi di psichiatria. Invece Paolo era curiosissimo, si avvicinava allo strumento, lo prendeva in mano, lo girava e lo rigirava, poi provava a soffiarci dentro, a premere tutti quei magici tasti che modulano il suono. Paolo ha amato la musica fin da piccolo, da quando ascoltava l’organo della Chiesa, ma la tromba, il mistero del suo suono, le sfumature della sua personalità, lo intrigavano ancora più profondamente. Se la portava in campagna, quando suo padre Lillino lo conduceva con sé per badare ai raccolti e alle bestie. E lei, la sua tromba, emetteva un suono caldo, che addolciva la ruvidezza delle pietre di cui era colma la terra, sibilando insieme al vento per scavare negli anfratti. Soffiava veloce e leggera nei pertugi della montagna, accompagnava i passi delle greggi in viaggio per ricercare pascoli, guidava i gesti del pastore nel corso della tosatura e le mani del contadino durante la vendemmia. Pensate alla figura di questo ragazzo che come in una fiaba incontra un mago o una fata che gli fanno dono di un oggetto magico, una tromba tutta d'oro che quando suona trasforma ogni cosa in quello che lui vuole.

Sono certo “Lillino”, pastore contadino e, Maria, casalinga, i suoi genitori, quelle figure fondamentali per la sua maturazione umana e artistica: «Mi hanno insegnato tutto. L’amore per la terra, gli animali e le piccole cose. L’attaccamento alla famiglia, intesa come comunità allargata, e il rispetto per gli altri. Mi hanno anche trasmesso l’amore per la musica nonostante non fossero artisti. Mio padre mi ha insegnato a dire poco e ad ascoltare ma anche ad archiviare ciò che si sa prezioso affinché rimanga la memoria, perché niente è regalato». Paolo ha saputo cogliere questi insegnamenti e sfruttare appieno il dono della tromba, ne ha fatto un oggetto con cui identificarsi e che lo ha condotto a seguire la sua “giusta via”. Tutto il suo percorso è, come in una fiaba, fatto di sfide e incontri, di paesi e luoghi misteriosi, quei posti della Sardegna dove è passato per volere dello spirito degli antenati, delle fatine, degli elfi e delle ondine racchiuse nelle acque, che lo hanno favorito e protetto come angeli di luce a ogni suo passo. In verità lo hanno aiutato anche il suo spirito ambientalista e la sua apertura cosmopolita improntata sempre verso l'amore, il rispetto e l'opportunità dell'incontro con l'altro.

La storia di Paolo potrebbe stimolare i più giovani a seguire una strada del cuore, come sostiene Don Juan in Castaneda: «Ci sono milioni di strade. Un guerriero… se sente di non doverla seguire, per nulla al mondo dovrà indugiarvi… c'è una domanda che non può fare a meno di porsi: questa strada ha un cuore? Le strade sono tutte uguali non portano da nessuna parte. Ciononostante, una strada senza un cuore non è mai gradevole. D'altro canto, una strada con un cuore è facile... ».

E così Paolo, un sardo come un altro, legato alla famiglia e alla terra, agli odori del mirto e del lentisco, ai colori della macchia che lo ispira e lo richiama col suo lamento di fronde al vento, di certo ha seguito il suo cuore, non ha mai perso di vista il suo mondo vero. Le immagini dei luoghi della sua infanzia si stratificano nella sua memoria diventando la fonte primaria della sua ispirazione. E così con un bagaglio semplice e con una piccola tromba, Paolo scardina la sua esistenza e percorre traiettorie che lo conducono lontano da quel piccolo paesino sperduto ai piedi di una montagna.

Paolo Fresu ha contributo a diffondere il Jazz nell’Isola e ha scosso, con il suono della sua tromba e del suo flicorno, il cuore e l’anima di tutto il mondo. Iniziando dalla banda del paese, transitando attraverso il Conservatorio di Sassari e poi di Cagliari, Paolo ha poi deciso di prendere la strada del Jazz: «In fondo ho scelto il Jazz perché mi dava l’opportunità, senza parlare troppo, di suonare uno strumento notoriamente chiassoso, in modo esattamente contrario, un modo che ho appreso da Miles Davis e Chet Baker».

Ed è nel silenzio delle sue campagne, ai piedi di una fresca montagna, ascoltando il suono della sua terra, che Paolo ha sviluppato il suo genio dedicandosi caparbiamente a un’arte che in conservatorio gli volevano negare non ritenendolo all’altezza. Invece lui si dimostra un musicista originale che riesce a unire alla magia della musica una sua personale interpretazione scenografica. Talvolta la sua figura esile e snella si piega in avanti e si lascia andare all’indietro seguendo il profilo del suono, creando una scenografia straordinaria, dove il suo corpo ruota e si flette ai limiti dell’instabilità e comunque sempre assai stabile. Flessibile sul palcoscenico, quindi, così come nel teatro della vita, anche lì sempre stabile nel suo successo.

La comunicazione di Paolo, infatti, va oltre ogni discorso, per dirla con Heinrich Heine: «Dove le parole finiscono, inizia la musica». Del resto, Paolo è convinto che: «Forse ci sono momenti in cui il silenzio è la vera arma di combattimento. E in questo, a volte, i sardi sono dei veri maestri. Ed è per lo stesso motivo che a noi piace cambiare il mondo con i suoni». Certo che si può cambiare il mondo con il suono, la musica ti fluisce dentro e spazza via tutto ciò che non è armonico, attutisce i conflitti, ammorbidisce i giudizi, contiene la rabbia, suggerisce i rimedi e rinfresca le idee.

E così sono passati gli anni, nel 2011 Paolo Fresu ha festeggiato i suoi «50 anni suonati», con 50 concerti, in 50 giorni consecutivi, con 50 formazioni e progetti, diversi di giorno in giorno in 50 capolavori paesaggistici della sua Sardegna: un’esistenza «tutta d’un fiato!». Un tempo vissuto intensamente come emerge nel film documentario 365 Paolo Fresu, il tempo di un viaggio del regista Roberto Minini-Meròt di cui Fresu è stato protagonista nel 2014. Paolo è un personaggio ulissico, amante dei viaggi fisici e metafisici e dopo ogni tormenta riapproda magicamente nella sua Sardegna – Itaca, ripercorre ciclicamente una strada che lo porta sempre dalla stessa parte, forse nel suo stesso “Castello Interiore”. Paolo si comporta come un uomo arcaico che investe della sacralità della sua musica tutta la sua esistenza giungendo a immergersi nel nocciolo di quel tempo fatto di istanti eterni che Mircea Eliade chiama Tempo Sacro, o forse vive ancora in quel tempo de Le Sciamane del Tempo di Sogno, le antiche guaritrici della sua Isola, o le Grandi Sacerdotesse della Dea.

Se gli chiedessimo a quale piccola stella ha affidato la sua musica per farla brillare nel cielo laddove la follia umana è solo un brutto ricordo, forse risponderebbe: «A quella che vedo brillare di luce violetta proprio nella corona del mio cuore!».