Non è un disco semplice, Divergent Directions di Franco Baggiani, e allo stesso tempo è un lavoro che affascina fin dai primi ascolti. Per impadronirsene forse serve qualche passaggio nel lettore, ma si capisce subito che qui l’ambizione è commisurata alla qualità della scrittura e alla bravura dei musicisti. E onestamente è un dato tutt’altro che scontato. L’album è, come si dice in gergo, pianoless, cioè senza pianoforte: probabilmente è questo a contraddistinguerlo maggiormente e a dare allo stesso tempo libertà e responsabilità al quintetto formato dallo stesso Baggiani (tromba), Giacomo Downie (sax baritono), Michele Staino (basso), Fabio Ferrini (percussioni) e Alberto Rosadini (batteria).

Baggiani come in precedenza si affida all’improvvisazione dei vari strumentisti, ma la composizione che sta a monte del progetto offre una struttura solida, curata, che lascia spazio all’ispirazione individuale senza abbandonare la musica all’incertezza e senza lasciarla in balìa delle esitazioni. Bastano le prime battute di Ida y Vuelta per rendersene conto, e qualche altro minuto per intuire qual è la direzione generale di questo disco, del resto esplicitata fin dal titolo.

Le suggestioni arrivano da direzioni diverse e, appunto, verso diverse direzioni lasciano divergere la musica: lo stesso Baggiani ha citato Ornette Coleman, il trio Air e gli Art Ensemble of Chicago nelle interviste rilasciate per l’uscita, ma è molta della musica più importante del Novecento, tutto sommato, a finire nel dna di queste composizioni. L’impressione in effetti è che questo disco non dimentichi nulla del passato e della storia del jazz, pur senza ricalcarlo o citarlo apertamente. Questo sia quando a condurre è il suono magistrale della tromba (che usa colori diversi, da Kenny Wheeler a Miles Davis, tanto per tracciare una tavolozza ideale), come in Quota 284, sia quando ci si affida con più decisione all’interplay, come nel già citato brano d’apertura o nella title track.

Se Il labirinto isola i vari contributi attraverso una sottrazione di suoni, la lunga Una serie per tutti al contrario arriva al risultato per somma, coinvolgendo l’ascoltatore in un turbine in cui non si perde mai il filo, e in cui, come nel migliore jazz contemporaneo, la complessità diventa semplice quando riesce a svelare l’idea e la “direzione”, appunto, che stanno dietro alla sovrapposizione delle varie parti strumentali.

La ritmica protagonista rende più immediata Past vs Future in cui la tromba si veste con la sordina mettendo in scena inseguimenti e richiami all’inizio, per poi sfumare in una seconda metà affidata ai fiati e decisamente più rarefatta. Le Infinite resources del quintetto emergono nel penultimo brano, mentre è difficile contenere nella definizione jazz (anche apponendo l’aggettivo “free”) la chiusura di Requiem, com’è del resto naturale per un album che per vocazione annunciata decide di sconfinare in territori differenti.