Marciavamo con l'anima in spalla / nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà / il cammino ci illuminerà
Non sapevo qual era il tuo nome / neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinin / ed io ero Sandokan

Gianni: per tutti questi anni io non ho fatto altro che pensare a te, sempre... Luciana
Luciana: ma io no!
Gianni: aah…

È solo una canzonetta, una canzone popolare per una scena, decisiva, del bel film C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, con degli stupendi Gassman, Manfredi, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli. Una canzone povera, ma autentica. Una canzone che non possiede neppure un nome! Riprende il nome, popolarmente, da un suo frame che cita il mito di Sandokan. I Miti sono amici fra di loro! Una canzone composta dall’ottimo Armando Trovajoli, sì quello di Roma non fa’ la stupida stasera di Rugantino e Aggiungi un posto a tavola e delle suggestive colonne sonore di tanti film. Eppure questa canzone se l’ascolti non la dimenticherai mai più. Ti entra in testa. E ci rimane. Fa riflettere e meditare. Perché? Cerchiamo di capirlo. Possiamo intanto ricordare che il film è un film struggente da “realismo romantico” sul tempo, sugli affetti, sull’amore, dove tre amici, la cui amicizia si cementò nella guerra partigiana, si ritrovano a Roma dopo 30 anni, negli anni ‘70, gli anni in cui è stato fatto il film. Gianni (Gassman) è diventato molto ricco, ha sposato un’ereditiera, ma non lo fa sapere agli altri, che ritrova per caso e che lo scambiano per un posteggiatore. Trenta anni prima lui aveva amato Luciana (Sandrelli), che ora è sposata con un altro dei tre amici: Antonio (Manfredi).

La canzone è utilizzata genialmente in una scena importante del film, quando Gianni “ci prova” spudoratamente con Luciana, bruciando così la vecchia amicizia appena ritrovata come sta bruciando il falò alle loro spalle, come la sigaretta che fuma Antonio; e gli dichiara persino di averla sempre amata, come a voler far rinascere come fenice “un grande amore”. Luciana-Sandrelli è fantastica: risponde un po’ stupita/svanita, un po’ stanca, ma perfettamente credibile nella sua “poesia del reale”: da 10 anni ora è sposata con Antonio e gli vuole bene. Siamo di notte, sono tutti attorno a un falò in una piazza insieme a una folla che veglia per far la fila il giorno dopo per prendere l’iscrizione a scuola per i figli, per la quarta elementare.

“I grandi amori” sono cosa del passato, come, si allude, le grandi passioni della guerra partigiana, anche se si fa fatica a dimenticarli. È il massimo della poesia questa struggente canzone partigiana di sottofondo mentre Gianni cerca l’impossibile: lottare contro il tempo e gli amori spenti. Antonio intanto canta attorno al fuoco, a pochi metri, fumando con l’altro amico, Nicola (Satta Flores) e saluta a distanza Luciana e Gianni che parlano, accennando con fierezza alla canzone, applicandola a loro tre quale inno all’amicizia che rimane nel tempo, nulla sospettando che in Gianni rivedere Luciana lo ha turbato al punto di provare a credere di vivere ancora un loro “sogno d’amore”.

Una sceneggiatura e un’interpretazione meravigliosa, toccante, dove i tempi cinematografici sono perfetti e si intrecciano pure i tempi semantici: il tempo del ricordo, il tempo quale flusso della coscienza, e il tempo del possibile. Gianni è come un pesce fuori dall’acqua: è ricco, disincantato, non c’entra nulla con i problemi quotidiani e popolari di Luciana e di Antonio, il cui amore famigliare è genuino, verace, anche se lontano da grandi sogni. Gianni è molto gozzaniano: non amo che le rose che non colsi… la Signorina Felicita. Gozzano non a caso viene citato dal colto e goliardico Nicola, a tavola all’osteria. Eppure l’incrocio tra l’innamoramento non risolto del ricco e depresso Gianni e la canzone partigiana di Trovajoli cantata da alcuni giovani attorno al fuoco (la contestazione anni ‘70) e ricantata subito dai due dei tre ex partigiani (Antonio e Nicola) è così irresistibile e intrigante da farci dimenticare che la canzone è degli anni 70 e non è mai stata cantata da alcun partigiano. Eppure è una delle migliori canzoni partigiane, sembra proprio nata sulle montagne dell’Italia del nord degli anni ‘40.

La musica è semplice e ripetibile all’infinito, come tutte le grandi canzoni popolari. Una canzone che vince il tempo, riformulandolo, ingannandolo, facendolo ritornare, ricreandolo. Fiera e struggente, impetuosa e disciplinata. Concentrata ed emozionante. A sua volta la canzone gioca con i tempi e i toni. Anche il testo è prezioso e fa riflettere. Attorno al fuoco si riflette, come davanti a uno specchio, no? L’anima come uno zaino, un lassù (la montagna partigiana) che è una tenebra, non un paradiso, la luce che verrà durante il cammino (mai data per scontata) e il tema del nome che i partigiani non si dicevano per non doversi tradire in caso di tortura.

“Pinin” è un tipico soprannome partigiano e abbiamo un’altra genialata: l’evocazione di “Sandokan” che dilata il tempo mescolando la nostalgia per l’epos della fanciullezza con l’epos della guerra partigiana. I partigiani come nuovi Sandokan, come bambini che in montagna diventano veramente come Sandokan, per alcuni anni. Il Nome. L’Essere. I Nomi restano. Tutto il resto svanisce. Ma il Nome può rifiorire e far rifiorire. Almeno il canto. L’amicizia e la fratellanza eroica non resiste al tempo se non nell’arte, nella poesia, nel sogno. Le parole della canzone contengono una saggezza persistente. I partigiani sono pronti a morire. Stanno in montagna, fuggiti dalla leva obbligatoria, lo sanno benissimo, ma parlano del futuro, non della morte. È così. Così è la vita.

L’originalità profonda del testo la troviamo anche nel non aver paura di affrontare pure il tema del futuro: si accenna al sole che sorge nella libertà, come fosse più bello, come se il sole partecipasse consapevolmente al cambiamento di libertà, all’alba della tanto sospirata pace: mi ricordo che poi venne l'alba e poi qualche cosa di colpo cambiò il domani era venuto e la notte era passata. Notiamo che nello stesso momento in cui si celebra il futuro, in una sorta di continuità eroico-nostalgica fra i tempi, fusi in un solo “tempo d’anima”, si vela pure il canto di un po’ di rammarico-amarezza: e poi qualche cosa di colpo cambiò… Rammarico per il tempo fuggito? Per l’epica conclusa? L’amarezza per gli ideali delusi dalla nuova Repubblica? Ogni opera d’arte è aperta, come questo gioiello. Gianni: il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti. Nicola: buttare via la propria vita significa farne il migliore degli usi. Gustosissima la loro lotta di sentenze all’osteria.

Gianni sotto la scorza, vera, di un imprenditore cinico e aggressivo, resta un reduce solitario, privo di un vero amore vissuto. All’osteria infatti immagina in un flash a occhi aperti di essere morto nella guerra partigiana, da eroe, e rimpiange che non sia accaduto così. Era meglio finire così. Eppure è un uomo di successo! Gianni dopo l’incontro improvviso con Luciana nella piazza del falò, se ne va senza salutare e dimentica la sua patente in tasca di Stefano. Ha perso ogni direzione. Anche quella del ricordo, della nostalgia, del sogno impossibile, di cui vive ancora Nicola. Una canzone e un film che riassumendo buona parte dell’ultima storia d’Italia riassumono la lirica del canto e del tempo di ogni tempo. Un inno che celebra sia il proprio inizio che la propria fine: ecco il suo piccolo grande e magnetico segreto, che include nello struggente l’apertura alla serenità. Operazione prodigiosa, delicatissima.

Qual è il tema di C’eravamo tanto amati? L’amicizia? La politica? La storia? Il tema è il cuore, come per ogni grande racconto. Il cuore sede della memoria e generatore del tempo. Il cuore che persiste. Per questo il film-canzone rin-cuora, ri-corda, cioè torna al cuore, non idealizza ma pone e delimita nel canto territori di valore, terre del cuore. Anche Gianni ha la sua poesia del cuore, sebbene il film ne mostri l’aridità sterile dell’arrivista. Spinge la ricca moglie, che non ama sebbene ne sia amato, a leggere i tre moschettieri, che gli ricorda i due suoi amici. Gianni è reduce nell’anima, con un cuore “fuori posto”. È anche l’eterna lotta tra Eros e Anteros, il suo compimento e rispecchiamento, che ne diventa l’avversario, il doppio, lo specchio con cui si contende. Anche su you tube ci sono alcune riprese poetiche di questa canzone e dello stesso film. Mi ha suggestionato quel video caricato nel 2010 (da antoniof75) dove si riprende il film e la sequenza dell’attentato alla colonna tedesca, tra la neve.

Mi sembra un gesto di grande poesia aver staccato improvvisamente appena dopo il gesto di Antonio (Manfredi) che fa brillare la mina: non si vede l’esplosione ma partono i filmati con l’esplosione liberatoria di gioia delle folle italiane ed europee alla Liberazione. Mentre la canzone epica scorre, scorrono pure le immagini dei protagonisti politici italiani, con un po’ di misto fra amara ironia e senso vitale e ritmico dell’impeto del ciclo del tempo. Chi ha fatto questo bellissimo video? Boh?! In un altro simile video su questa canzone e su questo film caricato nel 2011 (da Freeneversaid) vediamo una giovane e affascinante Stefania Sandrelli che legge un rotocalco dal parrucchiere: immagine che se la vedi con questa canzone di sottofondo e in questo video sorge anch’essa potentemente poetica nella sua dolcezza minimale, fertile e struggente per l’epica del canto del tempo, icona intima e intrigante della speranza, colta nel dolce culto del quotidiano, frammento visivo di un’Italia liberata, e, quindi, libera anche nel tornare al privilegio dello svagarsi. Liberata almeno nel canto, dal canto.