La storiografia che riguarda Glenn Gould, geniale ed eccentrico pianista canadese, ha indugiato troppo spesso sulle sue manie: triplici guanti, cappotti, sciarpe, la famosa sedia che adoperava al posto del panchetto per pianoforte. Tutte cose che Gould cavalcò per un breve periodo, consapevole che un giovane pianista, per emergere tra mostri sacri del pianismo a lui contemporanei come Horowitz, doveva distinguersi, in qualche modo. Ma Gould si stancò presto di quell’immagine patinata che ci rimandano alcune foto in bianco e nero: se ne stancò appena capì che ciò che lo avrebbe portato davvero lontano sarebbe stata la sua idea di musica, un’idea rivoluzionaria, a volte sconcertante.

A trent’anni dalla sua morte, il libro di Matteo Pagliari, Invenzione a due voci. Una conversazione con Glenn Gould, sgombra il campo dagli aneddoti per addentrarsi nel cuore più vero dell’attività di questo artista eclettico (pianista, direttore d’orchestra, creatore di trasmissioni radiofoniche che sono, in realtà, vere e proprie composizioni musicali). Lo fa con un’intervista immaginaria, che ridà voce a Gould e alla sua ironia, con l’amore di chi si è “infatuato” dell’artista in giovanissima età.

Direttore d’orchestra e pianista, Matteo Pagliari si è infatti accostato a Glenn Gould ancora bambino e studente del Conservatorio, prima con lo sguardo reverente del giovane ammiratore, poi con quello più maturo e acuto dello studioso. "Se è vero che le esperienze che facciamo da bambini avranno il potere di cambiare il corso della nostra vita, non c’è, musicalmente parlando, esperienza che sia stata per me tanto determinante quanto il mio primo contatto con Glenn Gould" scrive Pagliari, raccontando come acquistò il suo primo disco in vinile: The Little Bach Book, nell’interpretazione del pianista canadese.

LB: Come è nata l’idea di fare un libro su Gould in forma intervista?
MP: L’ispirazione mi è venuta dalle autointerviste di Gould (Glenn Gould parla di Glenn Gould con Glenn Gould e Glenn Gould parla di Beethoven con Glenn Gould), che trovo siano molto divertenti. Volevo fare una trattazione della sua attività, ma senza andare per compartimenti stagni (dividendo i lavori discografici da quelli per la radio o per la televisione), perché tutte queste attività si sono sempre intersecate tra loro. L’espediente dell’intervista quindi mi permetteva di rendere fluido il discorso e di passare da un argomento all’altro liberamente. È un modo per parlare agli appassionati, lasciando i dettagli più tecnici e l’apparato scientifico alle note e alle appendici. Se qualcuno si appassionerà a Gould o scoprirà nuovi dettagli grazie a questo libro, per me sarà un bel risultato.

LB: Come hai fatto a dare voce a Glenn Gould?
MP: Ovviamente quello che dice Gould non è inventato, alcune cose, al massimo, sono desunte... e avendo letto, per passione prima, poi per studio, molti testi di e su Glenn Gould, cerco di farlo parlare con il suo stile, il suo sarcasmo, la sua ironia. Chi lo conosceva bene, i suoi amici (che non erano molti), dicevano che fosse una persona divertentissima.

LB: Gould è oggi ricordato soprattutto come grande pianista, eppure lui non si riteneva un pianista...
MP: In effetti, Gould considerava il pianoforte uno strumento nel senso vero del termine, cioè un mezzo utile, non un fine. Aveva imparato dal suo maestro a cercare nel pianoforte altri timbri: ragionava pensando al suo strumento come a un’orchestra. Detestava i pianoforti che “suonavano come pianoforti”: una volta ebbe uno scontro con la Steinway perché non gli piaceva nessuno dei loro strumenti, e decise di registrare la seconda versione delle variazioni Goldberg su uno Yamaha. In generale amava i pianoforti dal suono più asciutto, usava pochissimo il pedale di risonanza e, per registrare, spesso metteva il microfono dentro il pianoforte per evitare ogni riverbero.

LB: Gould sosteneva che l’interpretazione più autentica si poteva ottenere solo in sala di registrazione e per questo, a un certo punto della sua carriera, decise di abbandonare l’attività concertistica per affidarsi alle incisioni. Cosa pensi di questa scelta?
MP: Secondo me nella sua decisione incise la sua misantropia (anche se nell’intervista non gliel’ho detto, per non litigare...). Sosteneva che per ogni tot ore passate con qualcuno, aveva bisogno di altrettanti giorni passati da solo. Quindi, ho ipotizzato che Gould abbia creato un’etica per giustificare il fatto che non amava il rapporto col pubblico. È vero che dopo un’esecuzione pubblica non sei mai del tutto soddisfatto, in sala di registrazione puoi invece ricercare la perfezione. Gould però non considerava che davanti a un uditorio può anche capitare qualcosa di meglio dal punto di vista emotivo, che a volte non corrisponde alla perfezione tecnica. Per esempio nella versione della Sonata op. 106 di Beethoven suonata da Richter (registrata durante un concerto), l’inizio è eroico, stupefacente, ti inchioda alla sedia, ma c’è una nota sbagliata. Una mente perfezionista come quella di Gould non lo sapeva accettare. Lui voleva “determinare il caso”: spesso nelle interviste dava domande già pronte ai giornalisti e aveva una grande esigenza di controllo, quasi maniacale, che però ha dato esiti stupefacenti.

LB: Qual è secondo te il limite, nelle incisioni, per ottenere l’interpretazione migliore? Gould spesso suonava più volte da capo a fondo un brano per poter scegliere la realizzazione migliore; oggi a volte, per realizzare un solo movimento, si fa un collage di più registrazioni prendendo una battuta da questa, una da un’altra. Si è andati un po’ oltre?
MP: Questo sistema oggi è diventato un alibi per chi non ha una buona tecnica: ci sono esecutori che, ascoltati in disco, sembrano apprezzabili e poi, quando li senti suonare dal vivo, ti cadono le braccia. Qualcuno ipotizzò che anche Gould usasse l’incisione per rimediare ai suoi limiti, ma in realtà lui andò in televisione sino all’ultimo, dimostrando che suonava alla perfezione.

LB: Un aspetto meno noto di Gould, di cui si parla nel libro, sono le sue trasmissioni radiofoniche: The Idea of North, per esempio, è una sorta di composizione contrappuntistica per voci, destinata alla radio...
MP: Gould intervistò separatamente cinque persone, di opinioni molto differenti, sulla vita e il lavoro nel Canada del nord. Lui faceva le domande, ma furono registrate solamente le risposte. Poi, in fase di montaggio pensò di far parlare insieme i suoi interlocutori, creando dialoghi che non erano mai avvenuti e, come ambientazione, pensò a un treno: il Muskeg Express che arrivava a Churchill, una località del Canada settentrionale. In pratica usò le cinque voci come altrettante voci di una fuga, oppure facendone un rondò, oppure una sonata in trio, e usò il rumore del treno sulle rotaie come basso continuo, sul quale si muovevano le parole. Tutti i suoi lavori radiofonici sono affascinanti dal punto di vista musicale: anche se non capisci cosa dice ognuno, è musica fatta con le voci.

LB: Gould amava molto la tecnologia, cosa pensi che avrebbe colto di quella attuale?
MP: Penso che gli sarebbe piaciuto tutto: lui che amava tenere i contatti col mondo per telefono o per lettera, con l’avvento della mail e di Skype avrebbe potuto comprarsi una casa nel nord del Canada, tra i ghiacci (dove spesso si ritirava per qualche giorno) e comunicare in qualsiasi momento col mondo senza essere a contatto col mondo stesso. Sicuramente anche le tecnologie di registrazione odierne gli avrebbero consentito di avvicinarsi sempre più al suo ideale di perfezione.

LB: Cosa consiglieresti di ascoltare a chi vuole avvicinarsi per la prima volta alla discografia di Gould?
MP: Premetto che il modo di suonare di Gould chiede molto a chi ascolta: spesso ho sentito dire che “corre sempre”, “suona tutto a tempo”, “non usa fraseggio”, “ha sempre lo stesso suono”. Non è vero, piuttosto usa sfumature così raffinate e piccole che ci vuole tempo per apprezzarle. Penso per esempio alle Suite Francesi, dove c’è una ricchezza di timbri, articolazioni e tempi che ho capito solo con gli anni. Dato per scontato che le Variazioni Goldberg sono l’alfa e l’omega, amo molto il suo disco di Strauss (contenente i Cinque pezzi op. 3 e la Sonata op. 5), e vado matto per il suo Mozart anche se fa inorridire la maggior parte degli ascoltatori. Il bello di Gould è che scardina la tradizione, capovolge le aspettative: se accetti di essere portato da un’altra parte allora ti piace anche il suo Mozart che, se pure con intenti dissacranti, ha tolto quella sensazione di santità che spesso avvolge le sue sonate. Secondo me ci sono molta ironia, molto sarcasmo, molte pernacchie e molte parolacce nella musica di Mozart e Gould questo lo aveva capito.

LB: In appendice pubblichi una cronologia, ordinata per data, delle sue registrazioni. Un’operazione nuova che mette in luce un modo di lavorare insolito...
MP: Alcune registrazioni, come quelle delle sonate di Beethoven, potevano essere realizzate in sei-sette sedute di registrazione che si svolgevano però a distanza di molti anni. Gould, per spiegare il suo modo di lavorare, si paragonò agli attori delle soap opera che devono reggere un personaggio per tre-quattrocento puntate, a volte più. Gould chiese a uno di questi attori come facesse a non diventare schizofrenico: lui gli rispose che, molto semplicemente, una volta che il regista diceva "buona!", lui dimenticava all’istante le battute della scena che aveva appena recitato, non ci pensava mai più. Gould capì che il suo modo di lavorare era molto simile, sia per i dischi che concludeva, sia per quelli che portava avanti per anni. Nel momento in cui lasciava lo studio di registrazione, ciò che era successo in studio là restava fino alla successiva seduta, che poteva essere il giorno dopo o anche anni dopo. Questo si capisce solo se si considera che la mente di Gould era di una lucidità spaventosa, basti ricordare che riuscì a suonare un intero trio di Mendelssohn a memoria dopo averlo suonato a prima vista una sola volta. È grazie a questa capacità che poteva riprendere lavori e progetti abbandonati da tempo, senza fatica, come un computer dove ci sono migliaia di file a portata di click: poteva dimenticarsi per anni di un pezzo e poi riportarlo immediatamente alla memoria. In questo modo si comprende come abbia potuto realizzare una discografia sconfinata compressa sostanzialmente in soli 25 anni di attività.

Da: Una conversazione con Glenn Gould, Albisani Editore, Bologna, 2012.

Matteo Pagliari è stato direttore stabile dell’Orquesta Sinfónica Nacional del Perù. Attualmente dirige per varie istituzioni in Europa e Sudamerica. Per essere informati sulle sue attività potete visitare il sito: www.matteopagliari.com

Gould suona le Variazioni Goldberg di J. S. Bach (incisione del 1981):