In un’epoca nella quale le ricorrenze si creano ad ogni piè sospinto, a volte tirandole davvero per i capelli, ce n’è una in particolare fra quelle passate sotto silenzio che lascia alquanto stupiti. O forse no. Spieghiamo meglio: se il ruolo mediatico che viene attribuito a queste celebrazioni non manca in genere di un aggancio commerciale, probabilmente il taciuto anniversario è stato frettolosamente giudicato “povero” di tale appeal, specie presso i nuovi fruitori di musica e chi alimenta certe promozioni.

Poco importa del torto enorme che è stato fatto alla cultura e alla musica (non solo italiana): le logiche di mercato prima di ogni cosa. E pazienza anche per l’ennesima occasione persa di rivalutare un capolavoro e tutta una produzione i cui limiti non erano di certo nei testi, piuttosto che nelle melodie o nei suoni, quanto nell’essere stata preceduta da un passato di cui il pubblico era (e, ahimè, è ancora) troppo geloso. Eppure le due produzioni convivrebbero così bene l’una accanto all’altra, perché la diversità è sempre un valore, da qualunque parte la si guardi.

Veniamo al dunque. Il 25 marzo 1986, data fortemente simbolica, essendo pure il compleanno del figlio Luca, usciva nei negozi il primo album del “secondo” Lucio Battisti, quel Don Giovanni scritto in coppia con Pasquale Panella che avrebbe poi firmato le liriche di altri quattro dischi del musicista reatino.

30 anni di un momento topico non soltanto per una carriera ma per la nostra canzone, che di colpo, e sempre per mano di chi aveva guidato l’evoluzione del suo linguaggio quando il bagaglio della tradizione somigliava più a una zavorra che a un vanto, si trovava di fronte un panorama espressivo completamente inedito, misterioso ed eccitante. Al tempo Francesco De Gregori lo aveva detto subito: “Don Giovanni è una pietra miliare. D’ora in poi dovremo tutti fare i conti con un nuovo modo di scrivere la musica”.

L’incontro con Panella era avvenuto qualche anno prima, in occasione della lavorazione al disco di Adriano Pappalardo Oh! Era ora (1983), LP in cui Battisti si è occupato degli arrangiamenti e della realizzazione, non trascurando comunque di partecipare attivamente all’esecuzione (suonandovi chitarre, synths e basso). Pur non essendo una sua opera, il lavoro fa sicuramente parte del percorso che porta a Don Giovanni e alla “pentalogia” degli “album bianchi” (il capostipite in realtà è l’unico con una cover di colore diverso).

Rispetto a E già (1982), la “puntata 0” del dopo Mogol, e a Immersione (1982), altro album di Pappalardo che Battisti aveva “usato” come banco di prova per le sue sperimentazioni, la vera novità di Oh! Era ora, che musicalmente appunto si colloca sullo stesso solco dei due dischi succitati, è rappresentata dal voluto effetto straniante dei testi, ricchi di metafore, allitterazioni, assonanze, scambi di vocali e di significati, con omissioni o aggiunte anche seriali di fonemi.

Ed era stato Battisti stesso a invitare Panella, scrittore proveniente dal teatro sperimentale che già aveva interagito col mondo della canzone (Enzo Carella), come paroliere delle musiche scritte da Pappalardo. La soddisfazione per il risultato artistico raggiunto nel disco dell’amico (dove Panella compare sotto lo pseudonimo di Vanera) lo convincerà quindi a proporre al singolare “versificatore” di collaborare al suo successivo progetto. Se si osservano le note di copertina di Don Giovanni e si fa un confronto con quelle del precedente LP uscito a nome dell’autore già ci si accorge che viene attuata, nel contesto della realizzazione della musica e degli arrangiamenti, una mediazione.

Non vi è dubbio che la strada continui ad essere quella aperta dall’album del 1982 (e difatti la produzione è affidata ancora a Greg Walsh), tuttavia qui sono presenti un discreto numero di musicisti e una certa varietà di strumenti che conferiscono alle otto canzoni di cui è composto il 33 giri una veste sonora più tradizionale (pianoforte, batteria, contrabbasso, chitarra, sassofono, tromba, arpa, corni, violini). Non mancano comunque le tastiere e le percussioni elettroniche: il trattamento di queste ultime, poi, si evolve ulteriormente verso la ricerca di un contrappunto quasi vocale; sono dunque queste le due anime sonore (una acustica e l’altra elettronica) che vivono in Don Giovanni e che Battisti vuole conciliare.

La veste grafica del nuovo lavoro si presenta con un’essenzialità del tutto inedita rispetto alla precedente produzione: sulla cover appare un acquerello raffigurante una sciarpa appesa a uno strano trespolo a forma di “a”. Anche qui, si ha la netta impressione che venga seguito un preciso programma artistico: il disco inaugura infatti una serie di cinque copertine (di cui le prime tre sono disegni del cantante stesso) dall’atmosfera di volta in volta più rarefatta. Da questo momento in poi non vengono più inclusi nei dischi, con semplice copertina a busta chiusa, scatti fotografici che ritraggono il cantautore: ormai Lucio Battisti è accessibile al solo ascolto degli album che, dal 1986 al 1994, escono con scadenze regolari di due anni. Ed è anche l’ultimo disco nel quale vengono inclusi i testi (che comparivano soltanto nell’edizione in vinile).

Con Don Giovanni Lucio Battisti ritrova la sua vena melodica più autentica dando vita a otto brani che per certe invenzioni rimandano inevitabilmente ai suoi successi degli anni Sessanta e Settanta. Anche la struttura delle composizioni, soprattutto in canzoni come Fatti un pianto e Madre pennuta, non è così distante dalle consuete divisioni in strofa e ritornello: qui il vero distacco dal primo periodo è attribuibile principalmente ai nuovi testi. Tuttavia vi è anche un nuovo modo di presentare il materiale musicale che può facilmente trarre in inganno l’ascoltatore: difatti, la ripetizione delle diverse sezioni non viene quasi mai attuata in maniera esplicita, ma attraverso vari stratagemmi dell’arrangiamento e della tecnica compositiva di Battisti stesso.

Succede per esempio in certe canzoni come Le cose che pensano, Equivoci amici (questa più di tutte) e Don Giovanni le quali nascondono un tipo di struttura piuttosto lineare e regolare: è come se l’autore volesse avvertire della possibilità di attuare un cambiamento radicale nella forma della canzone leggera italiana e nello stesso tempo lasci credere di averlo completamente attuato.

La nuova coppia Battisti–Panella entra in gioco e scopre le carte con Le cose che pensano. Questo brano cattura l’attenzione da subito, anche alla sola lettura del testo, grazie al raggiungimento di interessanti effetti creati dal funambolico paroliere. Ad ogni modo, anche senza addentrarsi nelle particolarità tecnico-linguistiche, si tratta di una poesia che ammalia per suono e potere evocativo di ciascuna parola, basta infatti l’incipit, dopo il moto da marea dell’intro strumentale pianistico, per caderne preda: “In nessun luogo andai/ per niente ti pensai/ e nulla ti mandai/ per mio ricordo”. La centralità e il calore della voce sono sorprendenti, la scrittura musicale intensissima: è un Lucio Battisti che inventa ed emoziona da una nuova dimensione, ancora libero, ancora innamorato della musica.

Chi poi desidera provare a interpretare i versi è il benvenuto e non è detto che non possa riconoscersi in tanti passaggi, criptici soltanto per coloro che si chiamano fuori dal gioco. Perché ci dovrebbe essere un senso solo? Ognuno trovi il suo. Forse questa è la tacita sfida lanciata dalla coppia. Può capitare comunque di incappare anche in frasi che sembrerebbero tutt’altro che schermate o irraggiungibili. Ad esempio, la title track, un valzer-beguine da brividi, parrebbe quasi rivelare il “movente” della nuova estetica battistiana: “che ozio nella tournée/ di mai più tornare/ nell’intronata routine/ del cantar leggero/ l’amore sul serio”. Parole per niente oscure, ma anzi dotate di un forte potere comunicativo, di un grande desiderio di libertà e di rompere gli schemi. È come se il cantante si interrogasse, attraverso i versi del nuovo collaboratore, sul suo presunto ruolo di comunicatore di emozioni (probabilmente il titolo nasce proprio da questo concetto) e, stanco di inquadrature a tratti anche avvilenti, sulle sue esigenze di musicista, sperimentatore e intellettuale: cosa che, in fin dei conti, gli è sempre interessata ben di più.

Se si desidera un saggio di tutte le abilità e i giochi verbali di cui è capace Pasquale Panella si ascolti invece Equivoci amici, il brano che precede Don Giovanni e che apre il secondo lato del disco. Grazie all’omissione, allo scambio e all’aggiunta di particolari fonemi, alla creazione vera e propria di vari nomi e vocaboli fin dall’interminabile elenco iniziale (non si capisce bene se di equivoci o di amici), riesce infatti a creare un testo che è, per intero, praticamente uno scioglilingua. E anche musicalmente ci si diverte davvero tanto con un pop veloce e di grande presa melodica.

Ma non si trascuri nulla di questo primo capolavoro del secondo corso artistico battistiano: dalla rock ballad Fatti un pianto e il suo sax da brividi all’anima black de Il doppio del gioco, dalla dark wave tribale di Madre pennuta al pop sopraffino e jazzato di Che vita ha fatto (con un arrangiamento che a tratti rimanda a Quincy Jones), fino alla conclusiva Il diluvio, elettro pop colto ma discorsivo, dalla struttura ciclica. Lucio Battisti non esclude l’ascoltatore, al contrario tenta di coinvolgerlo e stimolarlo maggiormente: una rivoluzione che oggi più che mai sarebbe indispensabile.

Auguri dunque a Don Giovanni e a un genio che non ha mai smesso di essere se stesso e di emozionarsi ed emozionare con la musica.