È l’eroe alieno. È l’artista che getta via il guinzaglio dei più consueti canoni espressivi. È la prova che la fantasia può diventare materia. I sogni, realtà. Ora è a Bologna.

David Bowie, uscito di scena lo scorso 10 gennaio (tre giorni dopo l’uscita del suo ultimo album Black Star), è tornato in Italia a luglio con la mostra, a lui dedicata, David Bowie is, al museo d’arte moderna MAMbo di Bologna. Realizzata dal Victoria and Albert Museum di Londra, la mostra ha fatto il giro del mondo, toccando come prima tappa Londra, poi Chicago, San Paolo, Toronto, Parigi, Berlino, Melbourne e Groningen. Finalmente è arrivata in Italia, a Bologna. Non mi sono fatta sfuggire l’occasione di immergermi, per qualche ora, nell’immaginifico mondo del Duca Bianco.

Il titolo della mostra David Bowie is, e l’intero percorso in cui essa si sviluppa, danno molto bene il senso della camaleontica capacità artistica del Duca Bianco. Nella prima sala, una scritta su neon a luci rosse, David Bowie is crossing the border, (David Bowie attraversa la frontiera) esprime l’essenza stessa di Bowie: quel suo continuo sperimentare, e far dialogare tra loro, varie forme d’arte. Bowie ha fatto della trasversalità dell’espressione artistica, una forma d’arte essa stessa.

David Bowie is: David Bowie è… ovunque. Dal cinema al teatro, dalla musica alla pittura, dalla moda alla tecnologia, il Duca Bianco inonda della sua straripante personalità ogni ambito artistico. «Mi facevo coinvolgere da tutto quello che poteva essere artistico», commenta Bowie in una breve intervista, tra le tante proiettate sui monitor. Ma la mostra offre anche qualcosa di più. Cerca di entrare dentro il personaggio, e lo fa partendo dal “dietro le quinte” della vita dell’artista. È un viaggio nei meandri più remoti della sua fantasia. Tra vita privata e spettacoli, in un ideale continuo salire e scendere dal palcoscenico, insieme a Bowie, il percorso della mostra entra davvero nel mondo del Duca Bianco. Cerca di scoprire non solo chi era, ma anche chi NON era David Bowie. Un cantante? Certo non lo era nella sua fase iniziale. E NON era neanche David Jones, come recita la scritta che accoglie i visitatori all’ingresso. Infatti l’artista cambiò il proprio cognome, (Jones) in Bowie per non essere confuso con Davy Jones dei Monkees. Da subito la voglia di affrancarsi.

La mostra è divisa in tre aree, in base ai diversi periodi del percorso artistico di Bowie. La prima parte della mostra racconta i primi anni della sua carriera, l’uscita dei suoi primi album nella Londra degli anni ’60. Dallo studio, come autodidatta, del sax e della chitarra, alla scelta di cambiare nome, ai suoi coloratissimi schizzi su tela. Tutto lascia presagire, sin dai primi anni, il genio che sarà. È in questa parte della mostra che si accenna alle sue prime fonti d’ispirazione: dalle performance giapponesi del Kabuki, al surrealismo tedesco al primo grande mito musicale cui si ispirerà Bowie: Little Richard. È il 1969 quando esce il suo primo grande successo Space Oddity. Impossibile non lasciarsi rapire da quelle note: ipnotiche sirene omeriche del primo folk rock prodotto da Bowie. La genialità della mostra è tutta nell’incredibile capacità di trasmettere ai visitatori la sensazione di una presenza quasi fisica dell’artista, lungo tutto il percorso. Mentre le note di Space Oddity escono prorompenti dalle cuffie, fornite ai visitatori all’ingresso, scopro che in una teca è custodito l’originale, con tanto di correzioni, del testo scritto a mano della canzone. La presenza di Bowie si respira.

La seconda parte della mostra inizia dagli anni '70, gli anni in cui, tra costumi stravaganti e trasgressioni artistiche d’ogni tipo, Bowie diventa una vera e propria icona dell’emancipazione omosessuale. Nel percorso espositivo si ha quasi l’impressione di salire e scendere dal palcoscenico di alcuni suoi live. Si vive la magia della preparazione dei suoi show. Sono spettacoli ispirati a racconti romanzati e a personaggi fantastici da lui stesso creati, come Major Tom, Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il detective Nathan Adler e il Minotaur. Con oltre 300 oggetti personali (dai costumi di scena, ai suoi quaderni di appunti, ai suoi incredibili abiti) Bowie è raccontato sia nella sua dimensione pubblica che in quella privata. È in questa sezione che si trovano gli abiti originali delle storiche esibizioni del 1972 (Starman a Top of the Pops ) e del 1973 (The 1980 Floor Show).

Nella terza parte della mostra, un maxischermo trasmette il contributo cinematografico e teatrale di Bowie. È anche l’area dedicata ai concerti live, alle grandiose esibizioni dal vivo. In questa sezione sono esposti anche alcuni dipinti realizzati dal duca Bianco. Le canzoni di Bowie, fanno da colonna sonora all’intero percorso della mostra. All’ingresso vi è la maestosa tuta a righe, disegnata dallo stilista Kansai Yamamoto per il tour di Alladin Sane del 1973, e si cominciano a respirare i primi anni di vita dell’artista. Il costume simboleggia, in qualche modo, l’importanza dell’immagine per Bowie. Uno spazio è dedicato alla passione di Bowie per il mondo extraterrestre. È da qui che nasce uno dei suoi più noti personaggi, che è anche il titolo di una delle sue canzoni più conosciute: Ziggy Stardust. Un’icona che quarant’anni dopo Jan Paul Gaultier omaggerà in una sua collezione.

Il pianeta terra sta stretto al Duca Bianco. L’outfit sgargiante indossato per il brano, disegnato da Freddie Buretti, troneggia nella sala. Sembra che, da un momento all’altro, Bowie debba entrare e indossarlo, per portare i visitatori nel vivo dei suoi show. Lo sbarluccicante vestiario di Bowie è uno dei protagonisti della mostra. La moda è stata importante per Bowie, almeno quanto la sua musica. Il percorso termina con un saluto “alla Bowie”: una grande sala multimediale raccoglie foto e abiti, tra luci da palcoscenico ed effetti speciali, sullo sfondo delle sue canzoni.

Esco dalla mostra, come si esce da un concerto. Mi guardo indietro, come se avessi dimenticato qualcosa. Con un pretesto, chiedo all’ingresso di poter recuperare il mio telefono cellulare, che ovviamente non avevo smarrito. Mi fanno rientrare solo per pochi minuti. E così mi trovo proprio davanti all’intervista di Masayoshi Sukita (che è stato il fotografo di Bowie per oltre quarant’anni e che ha realizzato anche la nota copertina di Heroes). In una frase dell’intervista, c’è forse l’ultimo saluto del Duca Bianco «essere eroi significa essere liberi, anche dalla propria immagine».

Quando esco in strada, il Duca Bianco è tra la folla.