"Che importanza può avere quale saggezza usiamo per arrivare alla verità? Non è possibile che un solo sentiero conduca a tanto sublime mistero". (Simmaco, senatore pagano, 384 d.C.)

Una famiglia argentina sceglie di vivere in Uruguay, altrove dal luogo di origine, alla disperata ricerca di un rifugio, a riparo da occhi e pensieri indiscreti e giudicanti, per l’intimo dramma di una figlia nata diversa e ormai quindicenne, cresciuta con un segreto celato nel suo corpo: Alex, questo è il nome della ragazzina, ha infatti un’ambiguità genitale che la tiene in bilico tra due generi sessuali. I genitori l’hanno cresciuta come una ragazza, ma giunto il periodo dell’adolescenza, Alex inizia a percepire problemi legati alla propria identità sessuale. Di fronte a lei la difficile scelta: quale parte lasciar prevalere, quale castrare? È possibile la vita se non si lascia al diverso la possibilità di esprimersi e di vivere serenamente la propria condizione?

Questo è il tema scottante che Lucia Puenzo, regista argentina, propone nel suo film XXY, dedicando uno sguardo attento a un corpo diverso e in trasformazione, e alle emozioni dei protagonisti alle prese con conflittualità interne e di relazione con gli altri.

Lo smarrimento di Alex rispetto a quanto le sta succedendo, lo sconforto del doversi nascondere e non potersi sperimentare liberamente nel rapporto coi coetanei, la confusione tra un sentimento di perfezione e di mostruosità, la fissazione del pensiero sul sesso e sul proprio corpo rappresentano il doloroso modo per conoscersi, per individuare i suoi desideri e le sue paure, per riconoscere la sua identità. Ma non è questo il tormentoso percorso di ogni adolescente alla ricerca e scoperta di sé, sconvolto dal terrore senza nome dall’incontro con la vita? Nella realtà, un ermafroditismo completo è molto raro, il film quindi si può leggere come una metafora della complessa ricerca di identità, personale e sessuale, che caratterizza l’adolescenza e funge da stimolo a riflessioni su questa tematica, sulla vita, sul difficile impatto con la realtà.

La storia di Alex narra il delicato percorso di separazione/individuazione che connota il passaggio dall’infanzia all’età adulta, mette in scena il lutto per l’abbandono della sessualità infantile con il suo ideale di perfezione e di onnipotenza, racconta lo strazio dell’incontro frustrante con la definitezza e la limitatezza, è anche una metafora della fantasia di poter evitare i limiti della natura umana e di eludere le differenze di genere. Esprime efficacemente l’emozione, il dolore mentale, l’eccitamento che connotano la sperimentazione adolescenziale, talvolta travolta da una sorta di ubriacatura di esperienze in cui il corpo è sovente in primo piano, proprio perché è il luogo di trasformazioni eccitanti, ma anche inquietanti perché nuove, sconosciute, disorientanti. Che la sessualità, l’identità di genere e il ruolo sessuale giochino una parte fondante l’essere umano ci viene proprio raccontato chiaramente dalla storia di Alex, in cui la confusione sessuale, il non riconoscimento della propria identità, ma soprattutto del proprio desiderio, “non so cosa voglio”, costituiscono una sofferenza profondissima, le/gli conferiscono un senso di mostruosità e costituiscono una grossa difficoltà di integrazione nel sociale.

Lo smarrimento, la confusione di Alex, il pensiero fisso sul sesso, comune a tutti gli adolescenti in pieno fermento ormonale, costituisce il modo per la ragazzina di conoscere il suo corpo, di sapere di se stessa, di individuare il suo desiderio. Questo stato d’animo ce lo racconta molto bene Kafka ne La matamorfosi, è il "terrore senza nome" di incontrare il proprio corpo trasformato e vissuto come estraneo e bestiale. Ma possiamo leggere il film anche come la rappresentazione dell’unicità e quindi della diversità di ciascuno, dunque si offre anche come opportunità di ricerca e di avvicinamento a quel mistero ineffabile che è la vita, alla sua imprendibilità, come già aveva intuito Shakespeare sostenendo che “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”…

Se nella società moderna lo studio della psicoanalisi si è incentrato sulla soggettività e sulla pulsionalità considerati come elementi fondanti lo sviluppo psichico e sessuale della persona assieme all’importanza della relazione con l’ambiente primario, nella società postmoderna il problema dell’identità di genere è entrato in scena con prepotenza, manifestandosi come qualcosa che non si può dare per scontato, dove il sesso anatomico non è più un ovvio punto di riferimento attorno a cui costruire l’identità, ma anzi, sovente l’identità ha bisogno di esprimere valenze indefinite e complesse. La questione dell’identità di genere si è imposta con una rilevanza tale da far definire “sexual century” il novecento, e da considerare il nuovo millennio come il “gender century” (Ethel Parson).

Il concetto di genere riguarda la consapevolezza conscia e inconscia di appartenere a un sesso, per cui accosta al genere sessuale biologico la percezione, il sentimento di sé, la rappresentazione intrapsichica e culturale delle caratteristiche del maschile e del femminile che non sempre necessariamente corrispondono al sesso anatomico. L’identità di genere tocca profondamente il sentimento di appartenenza al proprio corpo, della sua abitabilità, del sentirsi a casa, il riconoscersi in sintonia con esso, soprattutto il sentire di essere quel corpo.

L’identità di genere si pone quindi come elemento che costituisce la soggettività, precedendo addirittura e organizzando la sessualità di cui caratterizza le modalità di espressione e si configura come pietra angolare nella costituzione dell’identità personale. L’identità di genere ci obbliga a porre attenzione a ciò che è relativo, complesso, addirittura multiplo, ci induce ad ampliare lo sguardo rispetto alla formazione della struttura psichica e al suo sviluppo; la funzione mentale è ora considerata come una configurazione di stati di consapevolezza che sono discontinui, non lineari, anche se in rapporto dialettico con la necessità di un sé unitario coeso.

La questione del “genere” ci fa incontrare con l’incertezza, promuove un pensare insaturo, ci spinge a interrogarci tollerando di non avere risposte esaustive, prevede “una non facile co-esistenza di una molteplicità di etimologie” (Ogden, 1991). Sorgono inevitabili delle domande: il genere si costituisce attraverso il corpo o si genera dall’esperienza di attaccamento? Oppure è influenzato dalle culture e dai rapporti sociali? Ma come ammonisce Blanchot La réponse c’est le malheur de la question, invitandoci a sostare nel dubbio e nella sospensione della certezza.

Nella cultura del subcontinente indiano, le persone chiamate hijra di solito non vengono considerate né uomini né donne e hanno un ruolo di genere differente, generalmente sono individui biologicamente maschi o intersessuali, ma esistono anche individui biologicamente femmina. Tra i nativi americani esistono categorie di genere multiple e alcune persone vengono definite “due spiriti”, sottolineando proprio l’aspetto psichico, mentale. In Polinesia esistono persone chiamate fa’afafine che sono considerate un terzo sesso, sono biologicamente maschi, ma si comportano in modo socialmente considerato femminile. Sono spesso fisiologicamente incapaci di riprodursi, non vengono trattati con disprezzo o con condiscendenza, ma vengono considerati appartenenti a un genere naturale.

È dunque da prendere in considerazione rispetto all’identità di genere una pluralità semantica da contestualizzare così come vengono intesi gli haddad della lingua araba, parole che contengono contemporaneamente significati di senso opposto, avvicinandosi al linguaggio del sogno che, come dice Freud “…il ‘no’ sembra non esista per il sogno. Con singolare predilezione i contrasti vengono riuniti in un’unità o rappresentati insieme”. Non a caso, secondo Lingiardi, il genere è costituito della stessa stoffa di un sogno, di fatto molto facilmente assume una forma mitologica.

Eli Coleman nel convegno di Roma del 2000 organizzato dall’ONIG (Osservatorio Nazionale per l’Identità di Genere) ha espresso così il suo punto di vista: “Ci sono vecchi paradigmi nel pensare alla disforia di genere che si sono estinti e sono emerse nuove idee: prima di tutto prendiamo in considerazione il vecchio concetto secondo cui i sessi sono due. Gli storici direbbero che in altre culture non sono mai stati soltanto due… Anche il vecchio concetto secondo cui le persone possono essere classificate come transessuali, transgender, eccetera, è superato, ci sono ampli spettri di identità di genere”.

Si rivela allora imprescindibile l’opportunità di un’apertura del pensare all’identità di genere che non sia vincolata alla binarietà maschio/femmina, attività/passività, ma è auspicabile una disponibilità a considerare e a prestare ascolto alla molteplicità, all’inclusività, a possibilità altre, tollerando “il terrore dell’ignoto” per quanto riguarda questo tema scottante, scottante perché è qualcosa che riguarda la persona nella sua interezza, la sua espressione nelle relazioni intime, ma anche nel sociale, in pratica il suo essere in vita.

Ed ecco come Joyce Mc Dougall ci stimola e ci inquieta con questi suoi acuti e audaci interrogativi: “… E come accettare quella mostruosità costituita dalla differenza dei sessi che colpisce lo sguardo … il sesso lo si subisce, come la morte. Tuttavia nel proprio interno, alcuni Io recitano il ruolo di un personaggio tutto sommato ottimista, che può scegliere il sesso da impersonare: gli scenari facenti parte del registro della neosessualità, fino all’estrema sfida del transessuale lo testimoniano. Come non capirli? … come accettare senza tormenti e senza rimorsi la monosessualità?”.

Siamo brutalmente esposti a un nuovo panorama psico-sessuale, imprevedibile, disorientante, forse anche impensabile: il nostro sguardo brancola attonito, spaventato, confuso, cercando punti di riferimento che appaiono evanescenti e improbabili. Siamo chiamati a dover gestire uno spazio mentale affollato in modo selvaggio da nuove entità, diverse identità, e imprevedibili visioni. L’individuo che cerca la propria identità è alla ricerca della sua verità, tutta l’esistenza è volta a cercare di avvicinarsi alla verità ultima, a conoscerla e a condividerla con gli altri. Sappiamo anche che la ricerca del significato dura tutta la vita.

Alla fine del film, nonostante esperienze amorose, amicali, sociali mortificanti (stupri, dileggi, emarginazione), parlando col padre della sua tormentata situazione identitaria, che si è rivelata ormai non più solo come una questione di genere, ma di identità umana, Alex sussurra: “Forse non posso scegliere. È proprio necessario?”.