L’oceano è sempre stato quasi una seconda casa per David Crosby - nume tutelare della West Coast che vanta ben due nomine alla Rock and Roll Hall of Fame, insieme ai Byrds e ai compagni Stills, Nash e Young del celebre supergruppo - , la dimensione ideale per prendere le distanze dalle luci accecanti di Los Angeles e ritrovare se stesso. È su queste rotte dunque che, non molto dopo il ritorno solista in gran spolvero di Croz (2014), nasce Lighthouse, una delle sue opere più ispirate e vicine al suono che l’ha consacrato come uno degli idoli della controcultura di marca californiana dei Sessanta e Settanta.

Tre anni scarsi dall’ultima pubblicazione sono invero per Crosby un tempo assai stretto, se si tiene conto che fra gli album siglati soltanto col suo nome è trascorso in un paio di occasioni un ventennio, anche buono; ma la sua vita artistica ha dovuto fare i conti con tutti i tipi di problemi della sua vita di uomo, problemi sia con la legge che di salute (nel 1994 subisce addirittura un trapianto di fegato), e rimettersi in sesto, pure dal punto di vista psicologico, non è mai stata una passeggiata per il vecchio leone losangelino dai lunghi e folti baffi. Noto per il temperamento non facile, incline tanto all’irascibilità quanto alla depressione (non che non ve ne fossero i motivi, a cominciare dalla fidanzata Christine Hinton persa in un incidente d’auto nel 1969, momento dal quale cominciò sempre più a guardare il baratro), “Croz” (suo soprannome) ha però potuto contare a più riprese sulla vicinanza e l’aiuto di molti amici musicisti (fra questi, Graham Nash, James Taylor, Jackson Browne e Phil Collins) e sulla sua dote unica in grado di “sublimare” in musica delle più alte sfere i vari accadimenti personali e i propri moti dell’animo.

In Lighthouse, il mare tanto caro al musicista (marinaio di fatto fin dalla giovane età) e già presente in canzoni e copertine di dischi solisti e non (celebre la foto di CSN del 1977, in cui la barca immortalata è proprio la “Mayan” di Crosby), torna a rivendicare un’intensità e una sincerità di scrittura che rimanda a episodi lontani ma mai passati: è come un ponte, un ritorno a casa, e alle radici, con uno sguardo sempre fresco e acuto ma una nuova saggezza a guidare la navigazione. È come se il sogno e la ribellione hippie di monumenti giovanili quali If I Could Only Remember My Name (1971) avessero trovato la via per interagire col mondo e generare realtà, senza comunque dover rinunciare alla propria anima e alla propria identità musicale. I vecchi capolavori di Crosby hanno il potere di tenere in vita un’epoca facendo dimenticare il naufragio di valori a cui nel giro di pochi anni è andata incontro; qui però siamo nel presente e ci si emoziona per una maturità acquisita che non ha nulla a che vedere con la parola “disillusione”, al contrario David Crosby, oggi come allora, canta quello in cui crede con rigore e trasporto.

Ci sono gli ideali, le denunce, c’è la poesia, la malinconia e c’è l’amore; c’è quella voce che il tempo sembra non scalfire mai, quei cori celestiali e polifonici, a metà fra il folk celtico e antiche liturgie, e quella chitarra dai colori imprevedibili, eppure così naturale nell’accompagnare melodie che “galleggiano” limpide o tirano fendenti affilati. Non ci sono invece le percussioni, ma non si tratta affatto di una mancanza, quanto piuttosto, appunto, di una maggiore vicinanza alle origini: “L’unica percussione che si sente nell’intero disco”, commenta Crosby nel documentario di presentazione di Lighthouse, “è quella della mia fede nuziale che batte sul collo della chitarra”.

La scelta compiuta assieme al produttore Michael League, vincitore di un Grammy Award con i suoi Snarky Puppy, formazione che spazia dal jazz alla fusion passando per il progressive, è quella di un ricco tessuto di chitarre con timbri diversi (chitarra acustica, chitarra 12 corde, chitarra elettrica, chitarra baritono …) e di pochissimi strumenti (contrabbasso, organo, piano), oltre alla sezione corale. Dei nove pezzi, quelli firmati dal solo Crosby sono due, mentre gli altri sono scritti a quattro mani con League - spesso sia nelle liriche che nella musica - , un paio di canzoni poi sono condivise con le firme di Marc Cohn e Becca Stevens (in duetto con Crosby nell’ultimo brano). A detta del produttore, Croz si trova nel periodo più prolifico di sempre e dalle session è avanzato materiale di prim’ordine per un altro lavoro.

Si sappia inoltre che l’album in questione è stato registrato in tempi brevissimi. Crosby chiedeva un mese, mentre League non intendeva superare le due settimane: ne è sorta quasi una diatriba (“sono un vecchio signore, mentre tu sei un giovane impetuoso!”, aveva risposto contrariato il cantante al produttore), ma alla fine Lighthouse ha visto la luce (è proprio il caso di dirlo) in soli 12 giorni. L’iniziale Things We Do For Love (scelta pure come brano di lancio del lavoro) suona già come una promessa di qualità per le altre otto tracce a venire: un pezzo di una bellezza disarmante, una dedica d’amore alla moglie Jan Dance che emana poesia e tenerezza, con un arrangiamento che sgrana ogni singola nota di chitarra sotto una voce che non arretra di una virgola dal timbro cristallino per cui è conosciuta e che giunge dolce come un movimento di marea. Il refrain corale è un altro tocco di classe.

The Us Below profuma dichiaratamente di West Coast, toccando nel testo le corde di un disagio intimo a cui la musica fa da catarsi. Brilla per essenzialità di strumenti e ricchezza armonica Drive Out To The Desert - uno dei due pezzi scritti interamente da Crosby - , un inno alla natura sovrana in cui l’uomo si ritrova veramente in comunicazione con se stesso, strutturato su accordature inedite e ricercatissime che da sempre sono il marchio di fabbrica dello stile chitarristico di Croz. Segue Look In Their Eyes, una toccante ballata che tratta dei profughi della crisi siriana, intrisa non a caso di blues e cadenzata da un ritornello molto west-coastiano; il brano sfoggia anche colori sperimentali nei cori e sezioni che stanno a metà fra il jazz e il prog. Da incorniciare l’ultimo refrain: una partitura corale articolata ed inebriante al contempo.

Somebody Other Than You è una vibrante invettiva contro i politici che mandano a morire i giovani soldati in guerra; la strofa alquanto evocativa e improntata sul modo minore porta in un crescendo da brividi, con una rabbia sottile e sotto pelle, alle note ribattute del ritornello, le quali suonano come una mitragliata e una condanna senza scampo. The City è jazz e country insieme, con un bell’organo che entra sempre perfetto e un assolo di elettrica che graffia; un brano multicolore e pieno di dinamiche di ogni tipo. Con Paint You A Picture, il cui testo è a firma di Cohn (famoso per Walking In Memphis), si mescolano romanticismo e rimorso in una ballad dal tocco sonoro leggerissimo, eppure di un’intensità unica. Anche il canto è quasi sussurrato e tutto resta in punta di dita per valorizzare al massimo la poesia del testo. Memorabile.

Il secondo brano totalmente di Crosby è What Makes It So, altro punto altissimo a livello di scrittura e di arrangiamento, uno sguardo individuale che coccia con il mondo circostante e che pone domande destinate a rimanere appese al silenzio. L’organo di Cory Henry è da brividi. A chiudere, la raffinatezza e la cantabilità contagiosa di By A Light Of Common Day, con la musica composta dalla cantante jazz Becca Stevens e le parole scritte da Crosby. Il testo mette insieme esistenzialismo, autoanalisi e una ritrovata fiducia nella vita. Magico il duetto fra le voci di Crosby e la Stevens nel refrain. Un disco che recupera la rotta e ci porta un nuovo vento. Il vero ritorno di David Crosby.