Un giorno d’estate del 2009, Maurizio Melis, ex presidente di BA.D.S. (Basket Disabili Sardegna), inviò una lettera al quotidiano La Stampa per complimentarsi con Pierangelo Sapegno che il 22 luglio aveva pubblicato un articolo “quasi senza retorica (impossibile esserne totalmente scevri)” intitolato “Il trionfo della bellezza amputata. Dai campioni dello sport alle modelle, l’handicap non è più una vergogna”. “Quante volte vorrei abbracciare l’autore per non aver mai usato il termine diversamente abili - scrisse Melis -, neoidiotismo (non di neologismo si tratta) inventato da chi, mi si perdoni l’accostamento, definirebbe una prostituta diversamente vergine”. Melis, disabile fin quasi dalla nascita, si sentì “come gli altri” solo quando una persona gli disse di averlo trovato antipatico.

Che giustizia, infine: non essere insultato dal pietismo del bonus automatico di simpatia per il “meno fortunato”che non c’entra niente con la solidarietà e il rapporto umano autentico. Secondo Alessandro De Michele, architetto, sceneggiatore, scenografo e disegnatore, milanese di nascita e romano di convinta adozione, i disabili non sono diversamente abili, ma disabili, e le prostitute non sono diversamente vergini, ma prostitute. Sulla Terra c’è posto per tutti. Nel suo film documentario Il viaggio di Kalibani, prodotto da Antonio Iraci e Luciano Chianese, i disabili sono brutti se serve, a volte conturbanti, belli e nobili; infelici nella loro condizione se questa è prigionia, felici di trascenderla e galleggiare nella libertà, se è possibile. E con l’arte è possibile più spesso. “Mi piacciono queste persone specialmente in scena perché lì possono diventare ciò che nella vita di tutti i giorni è loro precluso” dice la truccatrice Kerstin Janeva.

Kalibani è un gruppo teatrale tedesco formato da attori con handicap fisici o mentali, fondato da Klaus Erforth, regista per cinquant’anni nei più importanti teatri della Germania, prima dell’Est, poi unita, collaboratore di Heins, Besson e Wekverth, per esaltare e far conoscere l’innato talento dei suoi protagonisti. Kalibani viene da Calibano, il mostruoso servitore di Prospero della Tempesta di Shakespeare. Ecco il caso di un nome che è tutto un programma. Il film di De Michele racconta il viaggio della compagnia da Berlino a Lublino per la rappresentazione della Classe morta di Tadeusz Kantor, con sosta al campo di concentramento nazista di Majdanek dove furono sterminati, oltre agli ebrei, tutti coloro considerati incompatibili con la diabolica idea di “perfezione” hitleriana: omosessuali, zingari e handicappati.

Sul pullman che lascia Berlino e attraversa la frontiera con la Polonia gli attori parlano della loro esperienza in palcoscenico: “Nel nostro mondo vengono considerate normali cose che fuori di qui non lo sono, perciò ne faccio parte”, “Questo è un altro modo di vivere, mentre fuori non c’è compensazione” e ancora: “Siamo esseri umani e chi non è stato amato non può essere capace di amare, è meraviglioso riscoprire il contatto con il corpo, toccare l’altro, la pelle, la propria nudità”.

Appassionatissimo del cinema di Federico Fellini, De Michele lo ha visto, studiato a fondo e con il regista-mito ha avuto un carteggio: carissimo signor Fellini gli scriveva e il maestro rispondeva, gli spedì anche uno dei suoi famosi disegni. Fellini, Federichino per gli amici di giovinezza, l’artista che profetizzò il futuro con La dolce vita e si calò senza ritegno negli abissi di sé con Otto e mezzo, se ne infischiava delle regole e, torrenziale nell’immaginazione, nella percezione, nei ricordi, nei desideri e nell’intelligenza, governava ad arte giostre vorticose di situazioni, colori, bizzarria e forme femminili che avrebbero travolto chiunque altro. L’insolito clan Kalibani, vibrante di emozione, coraggio, vulnerabilità, alle prese con zoppie, cecità, nanismo, sindrome di Down e ogni sorta di impedimento, è un po’ felliniano: nel dolore, nell’espressività, nello sprigionare la contentezza per la conquista di esserci, eccome, a dispetto della sciagura.

De Michele ha girato il suo film con l’intento incrollabile di schivare il patetico e, sostenuto dalla colonna sonora di Enrico Melozzi, ha puntato sulla vitalità della compagnia che contrasta il senso di morte della pièce di Kantor. Nella commozione che fa sussultare gli interpreti durante la visita al campo di sterminio di Majdanek , un momento di verità pura, nella sarabanda di occhi bistrati dalle tinte arcobaleno, che è spettacolo puro, nel volto aristocratico di un attore dallo sguardo cieco, si mette in viaggio anche lo spettatore, senza una meta prestabilita: in qualche luogo della ragione o del cuore di certo arriverà.