Così come per altre formazioni italiane dello stesso periodo (i Museo Rosenbach o i Pholas Dactylus potrebbero rappresentare un esempio significativo), nei primi anni '70 i Jumbo non ebbero quel riscontro di pubblico, e quindi commerciale, che sicuramente avrebbero meritato più di molti altri colleghi. Un destino comune che, analizzando la proposta musicale della band milanese, a posteriori si spiega facilmente: uno stile che non si allontana da certi canoni del progressive rock ma allo stesso tempo molto lontano da quello dei gruppi inglesi; un cantato anomalo, atipico, inconsueto per originalità, potenza e resa espressiva; una serie di testi che non parlano più di temi sognanti e immaginifici ma di violenza, solitudine, diversità.

I Jumbo si formano intorno al cantautore, bassista e sassofonista Alvaro Fella (in precedenza con i Juniors), responsabile di un paio di 45 giri usciti nel 1970 per la Numero Uno. Nel 1972, con l’ausilio di molti dei musicisti che avrebbero poi costituito la formazione ufficiale, Fella registra un primo album, l'omonimo Jumbo, un lavoro interessante ma sostanzialmente legato alla classica forma canzone. A pochissimi mesi di distanza esce DNA, ossia quello che può esser considerato a tutti gli effetti il primo album della band: maturo, intenso, una personalissima rilettura del prog italiano che riesce a sfruttare con grande disinvoltura tanto le atmosfere acustiche che i toni più aggressivi e incalzanti, creando così un perfetto supporto strumentale per la straordinaria voce di Alvaro Fella, vero e proprio strumento aggiunto d’inarrivabile intensità.

Vietato ai minori di 18 anni?, uscito per la Philips come era accaduto per il precedente, è il lavoro più ambizioso del gruppo. Un album che si avvale della collaborazione di Franco Battiato e Angelo Vaggi alle tastiere e di un sound che si fa ancora più maturo e sperimentale, ancor più sbilanciato verso le divagazioni strumentali e avanguardistiche, forte di un pathos vocale la cui irruenza dialettica viene portata alle sue più estreme conseguenze. E proprio a causa dei contenuti testuali giudicati allora troppo espliciti, il gruppo viene bloccato dalla diffidenza dei discografici e bigottamente estromesso dalla programmazione televisiva e persino radiofonica.

Si parte subito molto forte, e Specchio, il brano di apertura, stordisce subito con la sua veemenza: la voce di Fella è abrasiva, perfettamente in tono con ciò che va raccontando fra l’urlo e la declamazione («Avevo sette anni quella volta che in colonia bagnai il letto. Mi fecero percorrere il lungo corridoio che portava alle docce, tirandomi per le orecchie. Schernito da tutti, ero nudo»), mentre la musica, senza mai apparire ridondante, si fa ora riflessiva ora minacciosa, in un crescendo impetuoso che si abbatte implacabilmente sull’ascoltatore.

Vorrei essere uguale a te si presenta quasi come un pezzo soft, giocato sulla tenue incisività del pianoforte e i contrappunti del flauto, salvo poi esplodere ex abrupto e lasciarci interdetti di fronte a tanta furia strumentale: l’incedere della batteria di Tullio Granatello sembra inarrestabile, un bombardamento sonoro che il taglio dei fiati e le note della chitarra sembrano rendere addirittura apocalittico. Il ritorno del signor K (ancor prima che un palese richiamo al secondo romanzo di Franz Kafka) sembra una brevissima continuazione, o conclusione, della lunga Suite per il signor K che riempiva tutta l’intera facciata del disco precedente. Via Larga affronta senza troppi fronzoli il tema della prostituzione («Ogni sera in una via del centro vendevi te stessa, contrattavi il tuo corpo, come si fa al mercato rionale con la carne di maiale. Poi al mattino tornavi a casa, lui ti vuotava le tasche e se i soldi non eran sufficienti ti prendeva a ceffoni»), ribaltando la struttura del secondo pezzo, così che l’inizio risulta aggressivo e dinamico, mentre la seconda parte si fa più melodica e soffusa, in netto contrasto con l’asprezza del testo, per poi riesplodere brevemente nel finale, prima del tragico epilogo affidato alla malinconiche note di una chitarra acustica e del fraseggio vocale: «Hai preso coraggio e ti sei ribellata, volevi finirla, cambiar la tua vita, te lo hanno impedito e tu hai minacciato. E ora se lì, in quella pozza di sangue. Hai gli occhi sbarrati ancora dal terrore».

Gil è un brano che esula nettamente dal resto delle altre canzoni, quasi una composizione d’avanguardia con i sintetizzatori di Battiato e Tony Vegliante e le percussioni in grande evidenza, nonostante il testo mantenga la vena cruda e brutale che contraddistingue l’intero album. Così come nel titolo, già nell’eco iniziale delle campane il brano Vangelo? appare come una provocazione caustica e dissacrante, se non addirittura pagana: «Bimbi e bambine, ragazzi e ragazze venivano legati nelle mani e nei piedi, venivano picchiati sui genitali, venivano salvati da spaventosi malanni»; la musica è cupa, minacciosa, resa ancor più inquietante dalle beffarde incursioni della chitarra. 40 gradi – che sviluppa il tema dell’alcolismo – è forse il brano più variegato e ricco di umori, cambi di ritmo, soluzioni armoniche inaspettate, persino un cantato insolitamente melodico e un finale dal vago sapore psichedelico. Chiude la brevissima No!, un rabbioso inno di protesta che si scaglia contro i troppi divieti e impedimenti della società contemporanea, ma senza le ingenue velleità di certo rock tinto di politica e impegno sociale, bensì con il sarcasmo e l’audacia di una band che venne sopraffatta dal suo stesso coraggio espressivo.

Ascoltato oggi, Vietato ai minori di 18 anni? appare come un lavoro crudo e struggente, un album invecchiato benissimo (o non affatto invecchiato) il cui fascino rimane immutato anche a distanza di quarantaquattro anni.