Il Trovatore di Giuseppe Verdi fu rappresentato per la prima volta nel 1853, e insieme a Rigoletto e a La traviata, fa parte di quella ”trilogia popolare” composta nel giro di appena due anni e mezzo, quando il compositore si trovava nella piena maturità e stava portando la forma d'arte operistica oltre i tradizionali modelli di bel canto, verso nuovi territori musicali e drammatici.

L’opera subito guadagnò una popolarità immensa, se è vero che nei tre anni successivi al debutto ebbe circa 330 produzioni in tutto il mondo: nei primi tre anni, ci furono a Napoli undici messinscene in sei diversi teatri, con 190 repliche complessive. Ancora adesso è tra le opere verdiane più amate, anche se meno rappresentata della Traviata e di Rigoletto.

Spesso si rimprovera al Trovatore di avere una trama intricata e poco plausibile: questo è probabilmente dovuto al fatto che pubblico e registi partono dall’idea che sia semplicemente una storia d'amore tra Manrico e Leonora (con il Conte nella parte del geloso terzo incomodo). Gli altri fili dell’intreccio (la guerra civile tra il Conte di Luna e i seguaci del Conte di Urgel, e soprattutto la vendetta di Azucena) vengono considerati quasi un contorno.

Eppure, questa non era l'idea di Verdi, che infatti inizialmente avrebbe voluto chiamare l'opera La Zingara, invece che Il Trovatore, per sottolineare l'importanza che Azucena aveva nella storia; alla fine decise di mantenere il titolo del dramma di Gutiérrez, da cui il libretto fu tratto (come del resto da autori stranieri veniva tratta la quasi totalità dei libretti d’opera italiani - un aspetto che sarebbe interessante approfondire). Rimane il fatto che, rispetto agli altri tre personaggi principali, che in fondo ripropongono il tipico triangolo amoroso del melodramma romantico, le simpatie di Verdi vanno chiaramente ad Azucena: non a caso, la zingara vendicativa sarà la prima di molti grandi ruoli di mezzo-soprano drammatico (Amneris e Eboli tra gli altri) che egli avrebbe scritto a cominciare proprio da questa opera.

Azucena si rivela al pubblico in tutta la sua drammatica forza con la tragica aria cadenzata Stride la vampa, e poi ancora più potentemente nel duetto con Manrico, in cui gli racconta la morte della madre che dal rogo le chiede di essere vendicata, e il tragico errore commesso da lei stessa gettando in quelle fiamme il proprio figlioletto invece che il figlio (che poi diventerà il trovatore) del vecchio Conte. E famoso resta il verso finale dell'opera gridato più che cantato da Azucena: "Madre, sei vendicata!" che dietro l’apparente, perversa soddisfazione per la vendetta consumata, non riesce a celare un fremito d’orrore per aver visto morire Manrico, da lei allevato come se fosse suo figlio.

Ma, per quanto la trama possa essere complicata, è stata messa in musica con una delle più belle partiture mai scritte per voci liriche, con melodie bellissime e una profondità drammaturgica senza pari. Pare che Enrico Caruso (o Toscanini, come altre fonti riportano) abbia detto una volta: "Non ci vuole molto per cantare Il Trovatore: servono solo i quattro migliori cantanti del mondo". E in verità, in esso la musica di Verdi arriva a vette drammatiche mai raggiunte fino ad allora da lui e da altri compositori.

Il Trovatore come storia d'amore, di tradimenti e di vendette è dunque la quintessenza dell’opera romantica italiana, fosca, violenta e tragica. Ma, sebbene tutta l’opera sia pervasa da un’atmosfera tenebrosa, piena com’è di storie terribili e dolorose, ha anche momenti di grazia e di assoluto lirismo, come la cavatina di Leonora Tacea la notte placida, la sua preghiera D'amor sull'ali rosee o l’aria del conte Nel balen del suo sorriso. E ancora, quanta energia e passione si trovano nella cabaletta di Manrico Di quella pira, o nei canti degli zingari in Vedi! Le fosche notturne spoglie. Il Coro delle incudini, poi, è uno dei più celebri e memorabili pezzi d’opera di tutti i tempi e per questo usato in diversi contesti, citato (o anche parodiato) in diversi modi.

Gilbert e Sullivan ne scrissero una parodia musicale con With Cat-like Tread, nella loro operetta del 1879, The Pirates of Penzance. Ancora più noto è l’esilarante uso che ne fecero i Fratelli Marx nel film Una notte all’opera, quando, durante una rappresentazione dell’opera verdiana in cui, mentre era di scena proprio il Coro delle incudini, la polizia e il produttore inseguono Harpo e Chico dietro e davanti il palcoscenico. Una citazione del Coro (suonato in un juke-box) la troviamo anche nel film Chi ha paura di Virginia Woolf, e perfino la leggenda del jazz Glenn Miller ne ha registrato una versione.

Luchino Visconti usò invece una messinscena del Trovatore alla Fenice per la sequenza iniziale del suo film Senso del 1954, ambientato alla vigilia della terza guerra d’indipendenza italiana, nel 1866. Qui, mentre Manrico canta Di quella pira, lo spettacolo viene interrotto dalle grida degli italiani nazionalisti che dal loggione lanciano manifestini patriottici. E ancora, Bernardo Bertolucci nel suo film del 1979, La luna, ci mostra tutta la scena seconda del I atto, l’aria e cabaletta di Leonora.

Un’opera amata e popolare, dunque, che, al di là delle possibili incongruenze nella storia, trova la sua unità nella partitura musicale e in alcuni elementi di base che ne connotano l’atmosfera: le tenebre notturne in cui si svolgono le vicende, i fuochi degli accampamenti e le fiamme del rogo della zingara, il ferro delle incudini e quello delle catene della prigione in cui vengono gettati Azucena e Manrico. Un destino implacabile guida i passi dei personaggi, un fato non capriccioso ma determinato dalle stesse azioni degli uomini. La chiave per capire l’essenza più profonda del Trovatore non è la letteratura teatrale ottocentesca e neanche Shakespeare, ma i racconti che troviamo nei poemi omerici, in quei miti senza tempo che costituiscono il fondamento stesso della coscienza occidentale.