In questi giorni si sono svolte le elezioni presidenziali in un grande paese europeo e la vittoria ha arriso con larga maggioranza al candidato europeista e liberale contro l'avversario, legato a istanze xenofobe e arroccato su posizioni di chiusura e di protezionismo. Alla cerimonia di insediamento ci si aspettava l'inno nazionale da accogliere con affettata compostezza, ma con grande sorpresa, nella sala, sono risuonate in un crescendo di entusiasmo e di commozione le note di una musica da tutti conosciuta e amata appassionatamente: l'Inno alla Gioia dalla Nona Sinfonia di Beethoven.

Credo che non esista al mondo un'altra armonia che già dalle primissime battute non venga immediatamente riconosciuta e non riversi nel cuore di chi la ascolta una gioia così profonda da essere amata universalmente. Perché c’è un amore che massifica e rende gregge, ma esiste anche un amore che, pur accomunando moltitudini, le eleva affratellando gli uomini proprio in quanto individui unici e irripetibili. Tale è l'amore per l'arte, paradigma del quale è la passione per la musica, di un artista che è stato capace di raggiungere una perfezione divina pur rimanendo sempre un uomo con le sue debolezze e i suoi limiti: Ludwig van Beethoven. E vorrei cogliere l'occasione per parlare un po' di lui.

Con una figura così si corre il rischio di scivolare inevitabilmente nella sconfortante banalità dei luoghi comuni come quando si devono affrontare temi universali come la natura, la vita o la morte. Ma è proprio questa insidia a rendere entusiasmante la sfida: provare a dire con parole nuove ciò che tutti sentono, ma che proprio per questo non sanno dirsi e così, per paura di apparire ingenui o sentimentali, non esprimono la gioia semplice ma profondissima che sprigiona da corde nascoste e dimenticate in fondo alla loro anima e che la musica di Beethoven fa vibrare con forza inaudita.

La sua musica la si ama così come si ama la primavera o il volto della propria madre, senza un perché, solo più tardi la ragione e la cultura cercano di spiegarlo e con erudite acrobazie per musicofili si cerca di relegare in un ambito riservato ad addetti ai lavori ciò che per sua stessa natura vuole parlare a ogni essere umano a prescindere dalla sua cultura, musicale e non. Perché si devono rassegnare, dall'alto delle loro cattedre i dotti e i professori: la musica di Beethoven non è loro appannaggio esclusivo ma appartiene a tutta l' umanità e parla al loro cuore così come a quello dell'umile bidello che alla sera spazza le loro aule e riordina i loro spartiti.

Beethoven ebbe un'infanzia assai burrascosa, il padre Joseph, un mediocre insegnante di musica, lo picchiava regolarmente e maltrattava la moglie, amata madre del futuro musicista. Fu un bambino solitario e sempre molto trascurato, dal rendimento scolastico assai mediocre, come riportano le biografie di chi lo ha conosciuto in quel periodo della sua vita. Alcuni sostengono che la musica sia gemella della matematica, sarà, però tale scienza non deve necessariamente essere bagaglio culturale di chi la musica la crea, perché le conoscenze aritmetiche di Beethoven non andarono mai oltre le addizioni. In generale fu dunque uno studente svogliato e scontroso che però ebbe subito familiarità con la musica: il nonno paterno infatti, venerato per tutta la vita dal nipote che ne conserverà un ritratto nello studio, era il Kappelmaister di Bonn, vale a dire la più alta carica musicale della città e il padre, come abbiamo già ricordato, era un mediocre insegnante di violino.

La musica, e in particolare l'improvvisazione, diventeranno dapprima il suo rifugio e più tardi, dall'adolescenza in poi, strumento di emancipazione sociale e culturale fino all'apoteosi che conosciamo. Eppure non fu certo una vita felice la sua, tanto che spesso pensò addirittura di togliersela e, almeno una volta, quasi vi riuscì come quando fu trovato dopo alcuni giorni mezzo morto nel parco della villa dell'amica Marie Erdodi, dalla quale si era rifugiato dopo la fine della relazione con l'Immortale Amata. Pare certo che l'infelice volesse lasciarsi morire di fame e, anche se l' incidente venne messo a tacere, è riportato da fonti autorevoli, come Anton Schindler amico e biografo di Beethoven. Ma fu soprattutto il dramma personale della progressiva sordità che gettò un’ombra tragica e grottesca sulla vita di un uomo che proprio di tale senso avrebbe dovuto essere provvisto più di ogni altro. Al crollo degli ideali della sua gioventù, cancellati dalla Restaurazione, e al declino fisico e sentimentale egli seppe reagire con quel disincantato e romantico eroismo che assieme alla sua musica ne ha fatto un mito assoluto, l'incarnazione stessa della lotta vittoriosa dell'individuo trionfante sul suo tragico destino. Di tutte le sue opere proprio la Nona Sinfonia, da cui hanno preso spunto queste considerazioni, può a mio avviso essere considerata il suo testamento musicale e spirituale. Musicale perché in essa ha condensato tutta la musica del passato, recuperando la tradizione classica ma percorrendone vie rimaste fino allora inesplorate.

Alla luce della spiritualità e dello splendore della musica barocca e pre-barocca che l'illuminismo aveva rinnegato, l’ha reinterpretata fino a giungere, lui che aveva acquisito una raffinatissima perfezione stilistica nella manipolazione ritmica, al tema finale dell'Inno alla Gioia che è di una semplicità quasi prosaica proprio per rivelare il sublime che nella semplicità si cela. Testamento spirituale perché nell'anelito dell'Inno alla Gioia, Beethoven ha saputo sublimare, esaltandole, le proprie aspirazioni utopiche verso una umanità affrancata da lotte e tribolazioni, nel trionfo di una futura civiltà in cui si instauri finalmente "il regno di Dio sulla terra, stabilito dalla fratellanza tra gli uomini nella ragione e nella gioia". Possiamo quindi affermare con Nietzsche che "ora lo schiavo emerge come uomo libero... ora che è risuonato il vangelo dell' armonia ogni individuo si riconcilia con il proprio fratello".

"Voglio annullare la Nona Sinfonia" esclama Adrian Leverkuhn eroe dannato del Doctor Faustus di Mann. La Nona è stata identificata come il più alto modello di una cultura affermativa, l'apice ideale di armonia e bellezza della civiltà occidentale, capace, secondo alcuni, di occultarne orrori e contraddizioni e ostacolandone, così, una visione oggettiva e disincantata. Marcuse, il filosofo del '68, scrive: "Coloro che oggi si ribellano alla cultura ufficiale si ribellano anche alla bellezza presente in tale cultura, a tutte le sue forme, troppo sublimate, segregate, ordinate, armoniche (...). Il rifiuto prende ora di mira il coro che canta l'Ode alla Gioia, quel canto che risulta invalidato nella cultura stessa che lo intona". L' atteggiamento nichilista e distruttivo che sottende un tale errore di valutazione permea gran parte dell'approccio culturale del XX secolo all'arte classica. Beethoven sapeva perfettamente che non c'era da farsi illusioni e non confondeva certo ciò che sperava nell'arte con ciò che probabilmente sarebbe stato nella realtà, conosceva bene la disillusione e la sconfitta ma non cadeva nell'errore fatale della disperazione.

Perché se si perdono definitivamente di vista i regni trascendenti di bellezza, di armonia e di gioia rappresentati nelle grandi opere affermative della nostra e di tutte le culture, se perdiamo il sogno della Nona, allora non ci rimane più nulla da opporre ad Auschwitz, a Hiroshima, a Srebrenica e a tutto l'orrore della nostra civiltà per tentare ancora una volta di riconsiderare le potenzialità umane.