Due date italiane a luglio (l’11 all’Auditorium Parco della Musica di Roma e il 12 all’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera, in provincia di Brescia) per Ryan Adams (Jacksonville, North Carolina, 1974), fenomeno del folk-rock statunitense che in febbraio ha dato alle stampe il suo ultimo album dal titolo Prisoner: il 16° a proprio nome (non sono quindi conteggiati i tre lavori editi con la band di alt-country dei Whiskeytown) in una carriera che complessivamente ha oltrepassato il ventennio.

Spesso indicato come nuova figura di spicco del cantautorato americano, a soli 42 anni Adams è in realtà già un veterano ed è con assoluta certezza tra gli autori più prolifici che esistano: celebre il “trittico” di uscite del 2005, con due album insieme a The Cardinals (Cold Roses e Jacksonville City Nights) e uno completamente solista (29); ma oltre ai 16 album (+1 dal vivo) esiste tutta una discografia “sommersa” di EP, edizioni speciali in vinile, B-side, collaborazioni, download e altro ancora, e anche adesso che le uscite principali presentano ritmi meno frenetici, normali insomma, si viene a sapere per esempio che Prisoner, composto da 12 brani, è la scrematura di circa ottanta canzoni, tutte registrate in studio. 80.

È seguita difatti la pubblicazione di un corposo cofanetto intitolato Prisoner: End Of The World Edition - che comunque ne contiene soltanto altre 17 -, qualcosa a metà tra il cimelio discografico e il gioco di ruolo, con messaggi criptati che se decifrati portano a un altro livello, addirittura fuori dall’oggetto stesso: un piccolo aneddoto per comprendere la genialità trasversale, la creatività senza freni del musicista, il quale a sua volta è un fan di formazioni musicali e nomi che vanno dall’heavy metal (Black Sabbath) all’alternative rock inglese (The Smiths) - passando per mille altri generi - e un collezionista sfegatato. Un entusiasmo, il suo verso la musica, che rimane genuino: “poco importa” che abbia riempito la Carnegie Hall, che diversi giganti lo abbiano voluto sul palco accanto a loro o che sia stato invitato come ospite musicale di punta al David Letterman Show, lui adora i suoi vinili e continua ad avere i propri eroi a illuminargli gli occhi.

Così come fanno i suoi gatti, spesso fotografati dentro i dischi o stilizzati in grafiche utilizzate per il merchandising della PAX-AM (l’etichetta personale): un vero amore quello di Adams per i piccoli felini, basti guardare i suoi profili social per rendersene conto all’istante. Sono “note a margine” utili per imparare a conoscere l’artista. Come la volta che a un concerto ha infilato i soldi del biglietto in tasca a uno spettatore ubriaco e molesto che chiedeva a gran voce di suonare Summer of ’69 - hit del quasi omonimo (e famosissimo) Bryan Adams – e si è rifiutato di andare avanti fino a quando questo non fosse uscito dalla sala.

Tra le “stranezze” artistiche invece, si pensi che il penultimo disco, 1989 del 2015, è il rifacimento completo dell’album della pop star Taylor Swift, smontato e rimontato secondo un’estetica rock e art pop: e la cosa incredibile è che ne uscito qualcosa di bellissimo anche per i palati più fini che snobberebbero qualsiasi prodotto di pop patinato. Un tributo? Una dimostrazione? Un divertissement? Chi lo sa. Ryan Adams scrive per impulso, contrasto (dai dissidi con l’etichetta - prima di aprirsene una sua - sono nati dischi “arrabbiati” e meravigliosi), sentimenti di ammirazione, sfida, gioia, dolore: sono canzoni che “pensano da sole” nel momento in cui prendono vita, come se tutto quello che prima aveva immagazzinato a livello emozionale di colpo diventasse musica e parole.

Ryan Adams è famoso pure per il carattere turbolento che gli ha creato problemi di dipendenze e periodi molto bui, ma ha anche uno spirito intellettuale, assetato di libri, arte e cultura: la convivenza “pacifica” dei contrasti risiede proprio nella sua musica che diventa una sorta di “riequilibrio” e di “catarsi”. È in questa chiave che va ascoltato l’ultimo Prisoner: un lavoro di un’intensità di scrittura e sonora eccezionali nato durante il doloroso periodo di separazione, culminato poi in divorzio, dalla cantautrice e attrice americana Mandy Moore, sposata nel 2009.

Un album con fondamenta solide di chitarra, basso e batteria (da questi elementi è partito tutto), un’opera di artigianato sopraffino con intrecci elettrici e acustici, dinamiche e riverberi che creano vortici, e un canto sincero e perfetto, dolente e all’occorrenza graffiante: ci sono tanti interrogativi e struggimenti nei testi, incalzati però anche da ondate di energia “springsteeniana” nel sound, talvolta a mo’ di vera e propria citazione della E Street Band. Adams, chitarrista virtuoso e abilissimo polistrumentista, dipinge una tela (proprio come quella della copertina, un suo dipinto ora in custodia a casa dell’amico Johnny Depp) e confeziona un “concept” sulla relazione tramontata, leggibile già attraverso i titoli (Do You Still Love Me?, Doomsday, Haunted House, To Be Without You, Breakdown, We Disappear … ), lasciando al brano Prisoner il compito di raccontare il senso di prigionia e di dipendenza da un mondo scomparso all’improvviso: questa la difficoltà maggiore nel presente, quindi l’insegna più adatta da mettere sopra tutto il lavoro.

Dal rock “tellurico” senza compromessi dell’apertura Do You Still Love Me? alla chiusura ipnotica e di marca “The Boss” We Disappear, questo disco è un viaggio sonoro che alterna schiaffi elettrici e carezze acustiche, bordate hard rock e arpeggi country, passando in rassegna l’anima, il valore artistico e l’abilità tecnica del musicista. C’è tutto. Per iniziare. Chi non lo conoscesse ancora bene e fosse incuriosito (e magari invogliato dalle date dal vivo in arrivo) sappia che con Ryan Adams si casca sempre in piedi, con qualunque disco. Tuttavia titoli come Heartbreaker, Gold, Love Is Hell (con lo splendido rifacimento di Wonderwall degli Oasis che fece innamorare persino Noel Gallagher), Cold Roses, 29, Easy Tiger, Ashes & Fire, Ryan Adams (due nomination ai Grammy) e, appunto, lo stesso Prisoner sono pressoché imprescindibili.