Lo confesso qui, sommessamente, senza che la dichiarazione scuota le coscienze: non sono mai stato un fan accanito dei Pearl Jam. Non che li consideri meno bravi di quello che sono, o che li abbia in antipatia. Semplicemente non sono un fan, non sono la mia tazza di tè (ma forse sarebbe il caso di dire il mio boccale di birra) e non li ho frequentati spesso. Naturalmente, siccome negli anni Novanta avevo già venti e passa anni e non vivevo su Marte, ho ascoltato molte delle loro canzoni, e ho anche qualcuno dei loro dischi a casa. La domanda quindi sarebbe: che ci facevo all’ippodromo del Visarno, a fine giugno, insieme ad altri cinquantamila ad ascoltare Eddie Vedder, che dei PJ è il leader e il cantante?

La risposta è abbastanza semplice, e ha nome e cognome: Glen Hansard. Il cantautore irlandese di cui ho scritto anche in passato, era nel programma della giornata al Firenze Rocks. E quando Glen passa dalle mie parti io ci sono. E poi il mio amico Carlo aveva già visto lo show di Vedder a Berlino e mi aveva fatto promettere che non me lo sarei perso. Quindi c’ero.

Alle 18,30 eravamo sotto il sole, in quella distesa di ghiaia e terra, con il nostro biglietto per l’inner pit, che ci consentiva di rimanere vicino al palco anche senza arrivare con un anticipo mostruoso, aspettando di ascoltare Glen Hansard, verso le nove. Prima di lui si è esibito Samuel dei Subsonica, ma non mi dilungherò su quell’oretta passata con le orecchie foderate di educata indifferenza.

Glen è arrivato in anticipo e ha cominciato a sistemare personalmente le chitarre e a fare il soundcheck, tra i saluti del pubblico e qualche battuta scambiata con le prime file. Ha cominciato a suonare puntuale, e la folla, fino a quel momento distratta, ha capito subito che quel simpatico tipo che con la sua barba rossastra incarna perfettamente l’immagine dell’irlandese classico, meritava attenzione. Glen ha spiegato subito che, dopo aver saputo la dimensione della platea, il giorno prima aveva telefonato ai musicisti della sua band, scongiurandoli di salire subito su un aereo per la Toscana, perché era nervoso al pensiero di affrontare quella marea umana da solo con la chitarra.

Con i due Frames (il nome della band di cui ha fatto parte per decenni, e che non è mai ufficialmente sciolta) Joe Doyle (basso) e Graham Hopkins (batteria), e l'aggiunta di Romy (piano), da tempo collaboratrice sia in studio che nei live, Hansard si è lanciato in una setlist stringata (poco meno di un’ora) ma di una potenza straordinaria. È partito con When your mind’s made up, uno dei pezzi forti degli Swell Season, duo di cui faceva parte insieme a Marketa Irglova e con cui vinse l’Oscar per la miglior canzone originale (il film era Once, il pezzo Falling Slowly), per passare a un vero e proprio inno dei Frames, Revelate, uno dei brani più trascinanti del suo canzoniere. Ha lasciato per ultime quattro canzoni della carriera solista, non prima di far esplodere il Visarno con una tiratissima versione di Astral Weeks di Van Morrison, preceduta dall’immancabile dedica agli amici (“family” dice lui) di Lucca e Bologna.

Per ascoltare Eddie abbiamo dovuto aspettare che finissero i fuochi artificiali di San Giovanni, e quindi le 22,30. Mi tocca svelare un retroscena: il concertone principale me lo sono visto dal palco, insieme a un’altra ventina di fortunati (tra cui la mamma di Vedder), per via del fatto che Glen Hansard è sbucato dalle transenne come il messia e ci ha consegnato (a me e altri sei amici lucchesi) i pass per il backstage. Quello che ho visto, sul palco a pochi metri da me, ma anche (e soprattutto) oltre il palco, guardando in faccia quella folla immensa, è difficile da spiegare.

Eddie non ha avuto le stesse remore di Glen: ha affrontato la serata (“Il pubblico più numeroso di sempre a un mio concerto da solo”) armato soltanto di chitarra e ukulele. Pensateci un attimo: un uomo solo, seduto su una sedia, su uno stage gigantesco, lo stesso che aveva ospitato i Radiohead, con davanti cinquantamila persone. Poco da dire: è stata magia pura, anche perché il pubblico ha cominciato a cantare in coro fin dalla prima strofa della prima canzone (Elderly woman behind the counter in a small town), offrendo un’accoglienza bollente che ha certamente messo a suo agio il protagonista. Che ha snocciolato una scaletta lunghissima, tra classici dei Pearl Jam, pezzi tratti dai suoi due album da solo, e una serie di cover molto azzeccata, con alcune scelte in qualche modo anche curiose. Perché dei Pink Floyd, Confortambly Numb tutto sommato ci stava, ma Brain Damage davvero non te l’aspetti. E allo stesso modo anche Imagine, che chiunque ha ascoltato milioni di volte, proprio per questo è terreno scivoloso, si rischia sempre la caduta, e invece è stata un momento commovente, suggellato (giuro) da una stella cadente che ha solcato il cielo proprio dopo l’ultimo verso (la stessa cosa è successa per Black, il che ci ha fatto pensare che Eddie avesse qualche entratura ai piani altissimi).

I momenti più intensi probabilmente sono stati proprio Black, I am mine, Guaranteed, e un’altra cover, The needle and the damage done di Neil Young. Ma è difficile scegliere, soprattutto se parliamo di emozioni, tra le canzoni di quella notte. Vengono subito in mente Whishlist, Rise, Trouble, Far behind, e altre ancora. Gran parte della bellezza è venuta non solo dalla voce cavernosa di Vedder, fioca solo quando parlava, ma anche dall’intesa con il suo pubblico, che sapeva quando cantare e quando lasciare Eddie da solo, quando battere il tempo con le mani, e quando tenerle in tasca. Tutto questo prima che Glen Hansard tornasse sul palco per chiudere il concerto in duo: da quel momento alla fine è stata quasi la perfezione, con Vedder che è sceso tra il pubblico per cantare una canzone di Hansard (The song of good hope), ha fatto fremere la moltitudine con Society, l’ha fatta urlare con Smile, saltare con Rockin’ in the free world (ancora lo zio Neil), e l’ha stesa definitivamente con l’ultimo bis, Hard sun.

Il risultato è che, a distanza di giorni, il mio amico Carlo mi ha fatto una playlist con novanta canzoni dei Pearl Jam e di Eddie Vedder, che sto ascoltando in loop mentre guido. E naturalmente, siccome non vivo su Marte, mi accorgo che parecchie di quelle canzoni le conoscevo abbastanza bene. Perché in fondo sono una delle colonne sonore degli ultimi venticinque anni, e io con le colonne sonore ci vivo da sempre. There's a big/a big hard sun/beaten on the big people/in the big hard world.

Setlist

Glen Hansard
When Your Mind's Made Up
Revelate
Winning Streak
Say It to Me Now
Astral Weeks / Smile
Bird of Sorrow
Lowly Deserter
Way Back in the Way Back When
Her Mercy

Eddie Vedder
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Wishlist
Immortality
Trouble (cover di Cat Stevens)
Brain damage (cover dei Pink Floyd)
Sometimes
I am mine
Can't keep
Sleeping by myself
Setting forth
Guaranteed
Rise
The needle and the damage done
(cover di Neil Young)
Unthought known
Black
Lukin
Porch
Comfortably numb
(cover dei Pink Floyd)
Imagine (cover di John Lennon)
Better man
Last kiss
(cover di Wayne Cochran)

Eddie Vedder & Glen Hansard
Falling slowly (cover degli Swell Season)
Song of good hope (cover di Glen Hansard)
Society (cover di Jerry Hannan)
Smile
Rockin' in the free world (cover di Neil Young)
Hard Sun