“Portare i Rolling Stones a Lucca è un po’ come parcheggiare un jumbo nel garage sotto casa”*. Non ricordo chi l’abbia detto o scritto, so che a me lo ha riportato il mio amico Lucio, qualche ora prima di un concerto che entrambi ricorderemo per tutta la vita. Il mio amico Carlo invece, alla fine di quella serata, rispondendo alle mie perplessità sulla prestazione vocale di Keith Richards alle prese con “Slipping away”, ha risposto: “Ma non hai capito, è stato come vedere Picasso dipingere un quadro, non devi guardare le pennellate”. E in fondo aveva ragione lui: a Picasso non vai a contestare il fatto che la sua sedia è dipinta a pezzi sconnessi, e a Keef non devi far pesare il fatto che ha vinto la gara di stecche. Il fatto è che la grandezza degli Stones, e non da ora, ha poco a che fare con il perfezionismo, e niente con il virtuosismo.

È difficilissimo raccontare un concerto del genere senza affondare inesorabilmente nella retorica, però bisogna provarci, perché sarebbe fin troppo facile dire che gli Stones hanno dimostrato sul palco che il rock and roll è ancora vivo, e che sarà vivo finché saranno vivi loro. Forse è meglio dire che quei quattro sul palco raccontano che il rock & roll è cresciuto, che è diventato vecchio, che sta morendo, e che non ha perso una briciolo di bellezza nei decenni. Quando dico che il rock, e i Rolling Stones, stanno morendo, non ho alcuna intenzione di lanciarmi in una dissacrazione impietosa, nella demolizione di un monumento. Al contrario, in questo processo di decadimento non vedo niente di penoso, semmai semplicemente ci vedo scorrere in mezzo tanti dei miei anni, e di quelli dei miei genitori, e perfino dei figli di Carlo, che al concerto erano accanto a me con la bandana gialla in testa, a dondolare e battere le mani seduti sulle spalle del babbo.

La prima volta che vidi Ronnie Wood dal vivo suonava al Pistoia Blues, quando il festival si chiamava ancora BluesIn. Era al fianco di un gigante come Bo Diddley, con il basso in mano, e ricordo distintamente che lo consideravo un vecchio. Credo fosse il 1988, e allora mi basta fare due conti per scoprire che, quel giorno, Ronnie era più giovane di quanto sia io adesso, che mi sento appena uscito da una tarda adolescenza (a parte i dolori, i capelli bianchi e la memoria). È evidente che la percezione della vecchiaia nell’immaginario del rock è cambiata tantissimo lungo la strada. Quando Leonard Cohen pubblicò il suo primo album, nel 1967, aveva 33 anni, ed era oggettivamente troppo anziano per poter diventare un idolo di quelle folle che, allora, seguivano il rock. Quando è morto, l’anno scorso, era l’idolo di intere generazioni che ne auspicavano l’immortalità. Nell’ultima intervista faceva fatica a parlare, e la voce cavernosa dell’ultimo splendido disco raccontava benissimo le passioni, i dolori e il decadimento fisico di un’esistenza lunga otto decenni.

Gli Stones invece sono qualcos’altro, e testimoniano ancora meglio quanto oggi il concetto di vecchiaia abbia piena cittadinanza nel rock and roll. Gli Stones sul palco semplicemente ignorano il tempo che è passato. Mick Jagger di pomeriggio fa il bravo nonno portando la nipote (che è già mamma) a vedere la mostra sul Cinquecento a Firenze, e la sera si dimena come faceva nel 1964, marciando lungo la passerella che lo porta in mezzo a un pubblico senza età, che va dai dieci ai settanta, e che lo vede esattamente come se lo è sempre immaginato, a parte quella dose massiccia di rughe che, fortunatamente, né lui né Keith Richards provano a nascondere (beh, Keith anche volendo non potrebbe).

Dico la verità: al concerto del Circo Massimo non ero andato per evitare la pateticità di vecchietti che si atteggiano a ragazzini. Poi avevo visto il video di Hyde Park, e avevo capito che quel rischio non esisteva. Gli Stones si spingono talmente oltre nella sfida al tempo e alla mortalità, che abbattono, sbriciolandolo, il muro di qualsiasi pateticità. E miracolosamente - non trovo altro avverbio - sono lontanissimi dall’essere patetici, e forse si fanno aprire i concerti dagli Struts proprio per dimostrare che l’essere patetici non è un fatto legato all’anagrafe.

Mi sa che nel proposito di evitare la retorica potevo andare meglio, tutto sommato. Ma del resto, come si fa? Che taglio vuoi dare al racconto di un concerto in cui, appena si spengono le luci, cinquantamila persone cominciano a fare “uh, uh”, perché sanno che da lì a pochi secondi partiranno le percussioni di “Simpathy for the devil”? E come fai a spiegare il brivido che senti all’inizio di una versione particolarmente oscura, nel rispetto dell’originale, di “Paint it black”? Se vai a un concerto così, devi prendere il pacchetto completo: la maglietta celebrativa della data lucchese addosso, le ore d’attesa una volta passati i cancelli, la voce che se ne va lentamente mentre canti, e che il giorno dopo ti lascerà quasi completamente afono, facendoti sentire un po’ giovane e un po’ ridicolo. Se non ti carichi sulle spalle questo kit, può capitare che durante il concerto tu faccia attenzione alle cose insignificanti, tipo se la batteria di Charlie Watts è più in ritardo del solito, se il testo di “As tears go by” in italiano è brutto esattamente come te lo ricordavi, se lo sbrang a cinque corde di Keef entra al momento giusto o no, se nel primo assolo perde e ritrova la strada tre o quattro volte, se la sedia di Picasso è tutta storta. Sottigliezze così, che con gli Stones c’entrano pochissimo. Lo dico piano e con tutta la modestia del mondo, ma lo dico affinché conosciate la verità: a Lucca gli Stones hanno suonato bene, non ascoltate quelli che dicono il contrario. Oppure, ancora meglio, non ascoltate me. Fate una cosa: prendete subito la vostra copia di “Beggars Banquet” (ce l’avete, vero?), mettetela sul giradischi e appoggiate la puntina sui solchi della prima canzone. Fate suonare i tamburi, aspettate gli urletti, i grugniti e la presentazione di Mick, sul primo accordo di piano. Poi ditemi se gente che suona e canta un pezzo del genere debba fregarsene qualcosa della mortalità.

*P.S. Le polemiche seguite al concerto, le lamentele del pubblico stipato nel prato B e riversato nel viale, dietro ai platani, alla fine hanno confermato che, effettivamente, nel garage sotto casa un jumbo ci sta un po’ stretto.