Se di un musicista si può dire che, nella sua breve esistenza, ha stupefatto o annoiato, inorridito o sedotto migliaia di musicisti e milioni di melomani in tutto il mondo, questo è senza dubbio John Coltrane. Il cinquantesimo dalla sua scomparsa non fa che confermare la sua grandezza generativa e la sua inesausta sete sperimentale, tanto più significativa in questi anni, quando, come ha notato Marcello Piras, “La fase creativa del jazz si è fermata ... l’ultima generazione di creativi è quella nata negli anni ‘50” e, come ha sottolineato il biografo di Coltrane, Eric Nisenson: “I musicisti non fanno altro che rimasticare idee derivanti dalle sperimentazioni del passato, anziché esplorare nuovi e terrificanti territori che si trovano al di là della loro comprensione”.

L’incanto della sua musica prese corpo e sangue, a partire dai primi anni Sessanta, dopo aver superato quella tremenda fase di disintossicazione dalla droga che l’aveva fatto licenziare dal complesso di Miles Davis. “Non so cosa sto cercando. Qualcosa che non è stato ancora suonato … sto andando avanti, ed è quello che devo fare: devo diventare capace di incorporare tutti gli aspetti della musica”. Proprio nel 1960 incise quel My favorite things, contenuto nell’omonimo album, uscito poi nel ’61, frutto maturo di quella ricerca, che qui si fa voce già nell’impiego di uno strumento, il sax soprano, praticamente inusuale nel jazz moderno (a parte Stive Lacy). Tante sono le “narrazioni” sul come e perché di questa scelta: Miles Davis asserì che lui stesso glielo aveva regalato, mentre Coltrane disse di averlo trovato occasionalmente in un taxi.

Fatto sta che il suono esotico, sensuale e nostalgico ad un tempo, dello strumento e la sua declinazione con gli aromi e le sfumature della musica indiana, fecero nascere questo My favorite things, un capolavoro (di cui la casa discografica produttrice, l’Atlantic, fece una riduzione in 45 giri con un discreto successo commerciale), oltre tutto basato su un semplice valzer composto da Rodgers e Hammerstein per il musical The sound of music poi riadattato nel film Tutti assieme appassionatamente. Come commentò Coltrane stesso: “Di tutti i pezzi che ho registrato, My favorite things è il mio preferito. Credo che non lo rifarei in nessun altro modo, mentre tutti gli altri miei dischi sarebbero potuti essere migliorati …”.

In effetti, la prima versione di “soli” 14 minuti, perfetta per intensità e misura, fu difficilmente eguagliata dalle successive, alcune della durata di quasi un’ora, spesso ricchissime e sorprendenti, ma che, a volte evidenziavano quella ridondanza e quello sperimentalismo a tutti i costi che fu un limite del sassofonista, soprattutto nelle incisioni dal vivo. In quegli stessi anni Sessanta la società americana era percorsa da fermenti che si sarebbero concretizzati nelle lotte dei neri, delle donne, dei pacifisti e che influenzarono tutte le arti e, ovviamente anche la musica jazz, con il fenomeno del free jazz, una vera rivoluzione libertaria e provocatoria. Ora, Coltrane non si espose mai come “militante”, né politico né musicale, ma seppe trasfondere questi aneliti in una concezione più universalistica, dove il sincretismo religioso si accompagnava all’affermazione della giustizia, della fratellanza e del pacifismo.

Proprio in questa direzione va il secondo capolavoro assoluto del musicista, A Love Supreme, del 1964, una suite, divisa in quattro parti, incisa col suo classico quartetto ( Coltrane sax tenore, McCoy Tyner piano, Jimmy Garrison basso, Elvin Jones batteria), definita: “Una delle poche opere d’arte che, come la Cappella Sistina, la cattedrale di Chartres o la Passione secondo Matteo di Bach, è in sé quasi un’esperienza religiosa”. Una religiosità mistica e panteistica, che il poemetto ispiratore dell’album e composto dallo stesso Coltrane contemplava nella musica come un ringraziamento e un inno alla vita: “ Qualsiasi cosa ... è Dio./ … Parole, suoni, discorsi, paure ed emozioni/ tempo, tutto collegato … tutto/ fatto da uno … tutto fatto in uno/ … Dio respira attraverso di noi in modo così/ completo … così soavemente che lo/ sentiamo … appena, è il nostro tutto ...”.

Uno dei versi finale della composizione è “Entusiasmo – Eleganza – Esaltazione”, tre parole che sono e suonano perfettamente come la cifra di questa stupenda musica, dove non c’è una nota di più, dove l’autore riesce a incanalare la sua foga creativa in un mirabile equilibrio e in una contagiosa sintesi con gli altri membri del combo. Così, il cerchio si chiudeva e l’universalità della musica – africana, europea e orientale – esprimeva l’universalità del senso del sacro. Ma il continuo evolversi della sua poetica, unito anche alle sua vicissitudini biografiche, in particolare, l’incipit di una malattia che l’avrebbe portato alla morte nel ‘67, la rottura con la prima moglie Naima, e l’unione con Alice McLeod, pianista jazz, portarono il sassofonista a tentare ancora nuove vie, sempre meno caratterizzate da gioiosa esaltazione, ma da una “cosmogonia terribile”, dove il tentativo di inabissarsi nei misteri dell’universo era anche il frutto delle sue instancabili ricerche sulla numerologia, la teoria della relatività, la kabbala.

Questo senso di insoddisfazione e di impotenza di fronte al mistero dell’universo, che la nuova musica avrebbe voluto esprimere, ebbe un riflesso negativo sulla stabilità del suo classico quartetto e, in corso d’opera, John aggiunse e sperimentò altri musicisti, creando delle sorte di “jam session” - improvvisazioni collettive - dove si alternavano momenti di inarrivabile creatività, a coacervi di sonorità allucinate,- quasi un “urlo primordiale” - che disorientavano lo stesso pubblico più affezionato al musicista e che fecero sospettare l’uso di LSD. Alla fine, due membri fondamentali del tradizionale organico, Elvin Jones e McCoy Tyner lasciarono la compagnia e furono sostituiti dal batterista Rashid Alì, dalla moglie Alice McLeod, con l’aggiunta di un secondo sax tenore, Pharoah Sanders. Certo, i nuovi partner della sezione ritmica difficilmente raggiunsero le vette creative e l’empito dionisiaco di Tyner e Jones, ma furono consoni al nuovo corso coltraniano, inoltre, l’introduzione di una donna in un complesso così prestigioso fu un atto di coraggio, in un ambiente maschilista come era quello del jazz.

Gli album di quest’ultimo periodo, da Ascension, a Expression, fino all’ultimo “live” Olatunji Concert, sono una mistica e sofferta testimonianza di come Coltrane, fino a pochi mesi dalla scomparsa, fosse continuamente alla ricerca di mondi e sonorità nuovi, sono un suo magnifico lascito, sempre capace di stupirci, di stordirci, di coinvolgerci in un’armonia atemporale o in un inferno disperato: “Non c’è mai una fine: ci sono sempre nuovi suoni da immaginare, nuovi sentimenti da cogliere. Purificandoli potremmo vedere, allo stato puro, ciò che abbiamo scoperto, cosa siamo. Ma per farlo, e dare a chi ascolta l’essenza, dobbiamo continuamente pulire lo specchio”.