Chi cercasse un leitmotiv negli 82 documentari protagonisti della 58/esima edizione del Festival dei Popoli, Festival internazionale del film documentario, che si tiene a Firenze a ottobre, perderebbe il senno, tanta è la varietà di temi svolti. Quello che si propone la storica manifestazione, presieduta da Vittorio Iervese e diretta da Alberto Lastrucci, è presentare i migliori documentari internazionali. Ci limitiamo a dare un resoconto di alcuni dei più evocativi o di attualità fra quelli visti.

Alla serata inaugurale è stato proiettato un fuori concorso in anteprima italiana per gentile concessione della distributrice Wanted, Dancer, del regista Steven Cantor, che descrive l’ascesa e la fine (volontaria) della carriera di un grande della danza dei nostri tempi. Cantor raccoglie e monta con mano sapiente filmati d’archivio che ci dicono dei primi felici anni di vita di Sergei Polunin, nato in un piccolo paese dell’Ucraina, con un’infanzia felice perché “ero povero, ma lì tutti lo erano”. Ragazzino agile e flessuoso, fin da piccolo balla divertendosi un mondo, con il padre e due nonne che lo adorano. Ma poi la madre entra in campo, spodestandolo dalla passione pura per la danza, spietata nel perseguire il progetto di fare del piccolo non soltanto un bravo ballerino, ma uno che vinca tutte le competizioni e si affermi nel mondo, in modo da non rimanere intrappolato nella povertà, come è successo a lei. Dalla piccola scuola di Kiev, condotta da una maestra di danza dolcissima che insegna ai bambini giocando, viene catapultato nella durissima scuola londinese del Royal Ballet. I molti soldi necessari sono ottenuti smembrando la famiglia: il padre va a lavorare in Portogallo, la nonna in Spagna. Sergei cerca di ripagare il loro sacrificio con un’applicazione spasmodica, che gli fa ottenere il successo a soli 19 anni, ma riduce giorno dopo giorno il suo iniziale entusiasmo. A soli 22 anni, adorato dal pubblico, decide di lasciare il suo lavoro.

Presentare questo film all’interno del festival dei Popoli acquista il valore di un monito universale agli educatori. Quello di Sergei, infatti, è un destino non dissimile, anche se forse più drammatico, di quello dei giovani pianisti virtuosi in Cina, sospinti senza tregua dalle “madri tigre”, come sono generalmente soprannominate. A tutte le latitudini non è la povertà che spinge a pilotare il destino di un figlio, ma le proprie ambizioni frustrate che fanno di lui lo strumento attraverso cui la madre si realizza.

Per fortuna non ci siamo fatti depistare dal titolo, perché valeva la pena di vedere Ghost Hunters,(assonante con il notissimo Ghostbusters), che scava in profondità ma con grande rispetto negli abissi che l’incarcerazione politica crea in uomini innocenti. Il regista Raed Andoni ha reclutato, con un annuncio sul giornale, dei Palestinesi in carcere in Israele per farne gli attori di un film sulle loro esperienze. Si capisce che è interessato in prima persona all’elaborazione delle conseguenze della prigionia: i dialoghi, schietti e concisi, mostrano persone che non si sentono vittime. "Siamo perseguitati, non vittime", sottolinea al dibattito post visione il regista. Non tutti hanno superato quella traumatica esperienza, ma sul set si ride molto. Ed è proprio dal tono del riso che si può individuare se e quanto ciascuno si porta ancora dentro una ferita. C’è l’attore di professione che non vuole abbandonarsi ai ricordi, ed è lasciato libero di interpretare ricordi di altri; c’è chi, nel ricordare, guarisce dal senso di colpa che lo ha accompagnato fin lì. La partecipazione si cementa nello sforzo collettivo di ricostruire con le proprie mani la prigione, con la difficoltà di non averla propriamente vista perché tutti erano tenuti quasi sempre incappucciati. Con il contributo di ciascun ricordo parziale, la prigione cresce di giorno in giorno, insieme con i dialoghi.

Nell’opera compiuta set e backstage si fondono, interrotti soltanto da poche scene di animazione che riguardano il regista adolescente, la sua prigionia e l’aver superato l’angoscia della detenzione con la forza della fantasia. È sgorgata lì la capacità erompente di creare immagini, tanto che Andoni commenta: "Grazie Israele", in un’ironica attribuzione agli oppressori del merito di aver creato la regia di questo film.

Entriamo nel mondo della musica con la riproposizione, a 50 anni dal leggendario concerto internazionale di Monterey del 1967, del documentario di D. A. Pennebaker, Monterey Pop (1969). Spettacolo nello spettacolo è il pubblico, ripreso da cinque operatori con la libertà, oggi non più praticabile, di fotografare volti e corpi vestiti di ricercata stravaganza, i figli dei fiori della cultura hippy. Sempre di musica, e negli stessi anni, ma in Inghilterra, parla il documentario The Beatles, Hippies and Hells Angels di Ben Lewis (2017), inedita ricostruzione dell'iniziativa imprenditoriale fondata dai Beatles negli anni d’oro, la Apple Corps, passata alla storia come una delle più colorate, stravaganti e redditizie imprese, esperimento irripetibile di “capitalismo hippy”. Il regista ne narra la portentosa nascita e il drammatico declino. Pur col rifiuto della Apple di collaborare, Ben è riuscito a strutturare un film informato, avvincente e veramente godibile per l’inserimento di disegni animati creati per l’occasione in puro stile Beatles.

Il doc Radio Kobanî( 2016), film olandese di Reber Dosky, è girato nella città divenuta simbolo della resistenza all’Isis. Racconta la storia di Dilovan, una giovane ex studentessa curda che, durante la guerra di liberazione dalle milizie di Daesh, organizza con un gruppo di compagne una stazione radio per restituire calore, forza e speranza agli abitanti di una città ormai quasi completamente rasa al suolo ma ancora viva. I programmi, soprattutto interviste ai sopravvissuti, ai profughi di ritorno, ai combattenti e ai poeti, aiutano a far rinascere un senso di appartenenza alla città, da ricostruire insieme con il futuro di ognuno. Dilovan racconta alla radio la propria storia in forma di messaggio al bambino che un giorno avrà, accrescendo il senso di speranza che le trasmissioni riescono a suscitare negli ascoltatori. Un racconto amaro, intimo e poetico che analizza la rinascita dopo il conflitto raccontando il trauma, la guarigione, la speranza e l’amore.

Nove i premi attribuiti nella cerimonia di premiazione dei film vincitori alle categorie diverse di documentari, con in più alcune menzioni speciali. Dopo la cerimonia è stato proiettato un film delizioso, che narra il sodalizio fra l’ottantottenne Agnes Varda, regista, sceneggiatrice e fotografa di lungo corso, e il trentatreenne JR, street artist acclamato autore di giganteschi murales fotografici. Umanità , fantasia, accettazione dei propri limiti, capacità di creare rapporti sono i molteplici fili conduttori di Visages e Villages, viaggio alla scoperta di storie e volti di alcune comunità francesi, e la loro celebrazione con foto giganti incollate nei luoghi in cui vivono e lavorano. Un viaggio che rimane nel cuore come danza di un folletto che sparge doni al suo passaggio, con l’aiuto di un collaboratore compagno di viaggio, timido e generoso. JR capisce al volo i messaggi di Agnes, li rende visibili con la sua arte e riceve in cambio da lei doni di fantasia ed esperienza.

In genere il livello delle opere presentate, corti, medi e lungometraggi, se si escludono quei pochi esempi di documentari concepiti come un resoconto casuale della realtà, è stato eccellente. Il premio per il miglior lungometraggio è andato al regista francese Eric Baudelaire per Also Known as Jihadi (Francia, 2017), troppo concettuale per essere compreso. Il mediometraggio premiato,On the Edge of Life di Yaser Kassab (Siria, 2017), è un film generoso, aperto, sottile e pieno di una fiduciosa poesia. Il Premio per il Miglior Cortometraggio è andato a Duelo di Alejandro Alonso Estrella (Cuba, 2017), vicenda familiare che ha come sfondo un antico rituale: vita quotidiana, quindi, non disgiunta dal mistero.

Meritatissimo il premio MyMovies.it – Il cinema dalla parte del pubblico (per la sezione Concorso Italiano) ad Aperti al pubblico di Silvia Bellotti (2017). Girato all’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli, ente incaricato della gestione di 40.000 alloggi in città e provincia, questo film ha la forza di una battaglia civile per la denuncia della burocrazia e insieme la levità di un film tragicomico, percorso dall’affettività degli impiegati che si industriano in mille modi per colmare i vuoti di leggi farraginose, pressappochiste e affastellate le une sulle altre, tanto da rendere opinabile la loro comprensione, e dunque la loro applicabilità ai casi concreti di cittadini che rischiano di perdere un bene importante come la casa in cui abitano.