Conosco Walter Leonardi dal 1988. Lui aveva 22 anni. Frequentavamo la scuola di Quelli di Grock, nata a Milano nel 1976, occasione d’incontro con il Teatro per centinaia di giovani e fucina di talenti. Io c’ero finita per diletto. Walter era arrivato con la speranza di farne un mestiere. «Veramente io ho iniziato teatro perché ero disperato, non ti ricordi? - mi corregge - tradito da Silvia, il mio primo amore: se n’era andata con Riccardo, ovviamente il mio più caro amico. Tragedia cosmica. Per blandire il mio narciso e trovare una consolazione che andasse “oltre”, ho cazzeggiato in un paio di ruoli al live di The Rocky Horror Picture Show - spero non ci sia nessuna testimonianza in giro - poi sono approdato a Quelli di Grock, buttandomi nell’avventura per dimenticare “lei”. Una volta la raccontavo con molto orgoglio ‘sta storia, oggi mi vergogno un po’». Non credetegli, è un vezzo. «Mi son detto: il teatro non ti tradisce né ti abbandona e da quel momento ho riversato lì tutta la passione. Il palcoscenico è stato ed è il più grande amore della mia vita, sebbene mi sia avvicinato anche a piccolo e grande schermo».

Già approdato al cinema con il film di Davide Ferrario La luna su Torino, dove interpreta un 40enne sfaccendato amante di Leopardi e dei manga sexy, Walter Leonardi torna al cinema nel 2018 con ben due film: Made in Italy di Luciano Ligabue, in uscita il prossimo 25 gennaio e, in primavera, Si muore tutti democristiani, esordio sul grande schermo del gruppo Il Terzo Segreto di Satira famoso nel web e arrivato anche in tv. Dopo aver mangiato tanta polvere sul palcoscenico, è con questo gruppo, e nel web, che Walter assapora quel genere di celebrità per cui la gente riconosce la tua faccia.

Quindi, il teatro ti ha tradito? «No, sono io che ci ho messo un po’ a capire come starci insieme, pur amandolo. Pensavo fosse una missione, dal palco volevo cambiare chissà che! Anni di arroganza (mia) poca umiltà (mia) pochi fondi (dei teatri) la spocchia (sempre mia) di chi pensa che un vero attore è solo quello che recita con i più grandi e nelle grandi produzioni. C’ho messo anni per comprendere che un vero attore è chi lavora duro e si apre alle opportunità, pure quelle che sembrano improbabili. Se dieci anni fa mi avessero detto che avrei avuto visibilità grazie al web sarei inorridito. Il compromesso è un tema centrale nella vita e lo è anche del film Si muore tutti democristiani». Restiamo ancora sui ragazzi del Terzo Segreto di Satira: come sono? «Cinque piccoli geni. Lavorano come pazzi, tenacemente. Quando li ho incontrati nel 2012 ero già su un nuovo cammino, ma con loro ho accelerato. Ho smesso di aspettare che l’occasione della vita mi raggiungesse al telefono e sono andato a cercarmela, l’occasione; l’ho abbozzata con il mugugno criticone, iniziando a dare il mio meglio anche in ingaggi che non corrispondevano all’idea che mi ero fatto della qualità. Perché se sgobbi sodo e bene, sei onesto e fedele a te stesso, il tuo lavoro emerge sempre».

Però ci vuole talento e, si sa, uno su mille ce la fa: «Sì, certo, ma credimi servono pure tenacia e fortuna». E poi? «Beh, aiuta bere moltissimo tutto quello che ha almeno il 10 per cento di grado alcolico. Questo per un certo periodo, poi non si regge più e bisogna smettere. È utile ascoltare molto Sid Vicious; vedere i video degli anni Ottanta, perché sono di una teatralità fortissima in assenza o quasi di computer grafica; avere, all’inizio, una voglia pazzesca di copulare, perché il teatro è un rapporto sensuale e inizia appena metti piede sul palco. È in quell’istante che conquisti tutti, l’attimo dopo è più difficile». E quando la libido precipita? «Beh, la fai diventare fascino: ti metti in disparte e fumi la pipa e gli altri capiscono che sei stato uno che c’ha dato dentro». Ok, capito. Invece, seriamente? «Mah, posso dire che serve soprattutto non smettere mai di cercare i metodi per diventare un buon attore e che un buon attore deve trasformare le critiche in crescita, alzare le chiappe da quella sedia e fare pubbliche relazioni facilitando la vita al proprio agente, se ne ha uno». Tu puoi garantire che così si scavalla pure la crisi che ha colpito il Teatro in Italia? «Naturalmente no. Comunque la crisi c’entra fino a un certo punto. Quelli di Grock dicevano: sai, non ci sono più i finanziamenti di una volta. Erano gli anni Ottanta. Dopo aver studiato alla scuola Civica di Milano ho iniziato a lavorare con Giorgio Barberio Corsetti che diceva: non ci sono più i finanziamenti di una volta. Eravamo a metà anni Novanta».

Tu, figlio di un operaio e una casalinga, rimasto orfano di padre presto e senza nemmeno un conoscente o amante, che so, alla biglietteria di un cinema, come hai campato? «Ho chiesto soldi a tutti: amici, parenti, parenti degli amici, amici dei parenti e anche nemici. Perché se il Teatro non ha soldi, per farlo devi trovarli. Molti debiti li ho saldati». Che fatica! Ma non è cambiato nulla in trent’anni? «È uguale, ma è differente. Tipo: oggi si dice stand up comedy al posto di cabaret, un po’ come è successo con spending review, ché in inglese la revisione di bilancio fa meno burocrazia». Tutto qui? «No, ci sono cose più gravi: i ragazzi, ora, pagano anche per partecipare ai provini. Imbarazzante. Oppure: un tempo a teatro esisteva il minimo garantito per la compagnia. Avevi una paga basica e se entravano incassi la somma si alzava in proporzione. Oggi è il contrario e così spesso si rinuncia».

E si passa al cinema. alla TV e al web? «Mah, non so. Io tv ne avevo già fatta e comunque continuo a portare spettacoli a teatro. Nel ‘99 feci le ultime serate del Processo di Kafka con Giorgio Barberio Corsetti – lavoro corale in cui interpretavo due ruoli – vincemmo il premio UBU. Dopo cinquanta repliche ogni sera avevo ancora paura di sbagliare. E sbagliavo. Entrai in crisi totale. Piangendo lasciai Corsetti, mio padre artistico. Sono stato fortunato, con lui ho imparato che rappresentare la semplicità è la forma di poesia più alta in teatro. Lui mi ha dato fiducia incoraggiandomi a volare, anche quella volta lì che l’ho “lasciato”». E da Kafka sei passato a un gruppo di comici. «Sì, chiaro sintomo di confusione mentale… In verità ho sempre prediletto la vena ironica. Ai tempi di Barberio avevo già partecipato al programma Scatafascio in tv con Paolo Rossi. Lo avevo incontrato altre volte perché era un conoscente di mia sorella, ma è entrato nella mia vita professionale nel ’97. All’epoca facevo parte del Collettivo Scaldasole e Paolo ci chiamò tutti insieme. È curioso che oggi io lavori con suo figlio Davide, uno dei cinque del Terzo Segreto di Satira. Un po’ una nemesi, perché Paolo è stato la prima fonte d’ispirazione e poi un maestro».

Me ne ricordo di quel Walter che negli anni Ottanta, emulando lo stile di Paolino Rossi, ci sfiniva con la sua personale ode alla Luisona, racconto di Stefano Benni che Walter aveva riscritto in forma di monologo. E ci faceva ridere: timido, impacciato, aveva però cazzimma, per dirla con un’efficace espressione napoletana. Una forza e una voglia di stare sul palcoscenico che ho ritrovato intatte in A-Men, dov’è attore, autore e regista. Un monologo, che ha debuttato nel 2016, su uomini e nuove religioni, solidamente sostenuto da un bel testo scritto a quattro mani con Carlo Giuseppe Gabardini: immaginifico, in bilico tra comico e dramma, illusionismo e prosa, poesia e cabaret. Una contaminazione di linguaggi e visioni in un’alchimia che strappa il sorriso e la lacrima; ti fa volare in superficie e poi ti porta in precipizi perturbanti. E come ha scritto il critico teatrale Giulio Baffi, ben più esperto di me, “Leonardi si muove sul palcoscenico con l’agilità di un acrobata e la grazia leggera di un comico intelligente”.

Mi hanno sorpreso pure le sue doti di scenografo. Lo spazio l’ha immaginato e costruito personalmente: burattini, ruote di biciclette danzanti, cuscini giganti trasparenti come il vetro, coriandoli che sembrano acqua. «È troppo bello progettare le scenografie. E realizzarle fa parte della magia del teatro - dice con il tono di chi gode solo all’idea - Una cosa che ho imparato con Claudio Intropido, altro maestro di Quelli di Grock». D’altra parte Walter poteva essere un architetto: ha frequentato l’università ma poi si sa il primo amore, il tradimento, la crisi cosmica.

E però alla fine bisogna ringraziarla ‘sta Silvia. «E ringraziamola!». Anzi, oltre a seguirti sul web e al cinema io la inviterei a vedere il tuo prossimo spettacolo vincitore del bando I Teatri del Sacro 2017. Titolo: Coma quando fiori piove. L’anteprima è il 19 dicembre al Teatro Herberia di Rubiera, Reggio Emilia: un viaggio lisergico nella testa di un uomo che, assieme agli amici di una vita, ripercorre il tempo tentando un bilancio dei suoi primi cinquant'anni. Capito, Silvia?