L'idea che sta alla base dell'attuale ensemble Rupert nasce da Massimo Ruberti, musicista già attivo nell'ambito dell'elettronica da almeno un decennio. La fase iniziale del progetto comprendeva i migliori brani della sua vecchia band livornese, i Disvega, ma presto Massimo chiama a sé i suoi ex compagni di gruppo, David Marsili (chitarre e voce) e Roberto Mangoni (piano, tastiere), e chiede loro di riarrangiare i pezzi per un nuovo disco. A questo punto entrano in scena Ada Doria, la cui interpretazione vocale darà alle canzoni il tocco che ancora mancava, e la preziosa produzione artistica di Daniele Catalucci (Virginiana Miller), il quale trasformerà il progetto solista di Ruberti in un vero e proprio sodalizio artistico costituito da cinque personalità diverse ma perfettamente integrate. Il risultato di questa collaborazione è l'ep Wandering, uscito nel settembre 2016 e distribuito digitalmente da Santeria/Audioglobe. I sei brani che compongono il lavoro in questione si muovono lungo il percorso di un chamber pop «evocativo e suadente»1, dove un solito impianto elettronico fatto di synth e drum machines è accompagnato da altri strumenti come fiati e archi e strutturato in arrangiamenti riconducibili alle sofisticate atmosfere di gruppi come i Tindersticks o i Mercury Rev.

Massimo, il tuo progetto Rupert era partito essenzialmente come progetto musicale da studio, ma ora ha trovato anche una collocazione in ambito live. C'è un motivo in particolare che vi ha spinti a un certo punto a salire sul palco?

Non uno, ma due motivi. Il primo è legato alla volontà di farci conoscere da un pubblico più vasto. Il secondo al puro piacere di suonare insieme! E visto l’elevato numero di strumenti usati nel disco, nonché tutta la strumentazione orchestrale, non è certo un'operazione semplice. Ma tutto questo sottrarre, cercando comunque di non distaccarci dallo spirito originale delle canzoni, per noi è una continua sfida, una ricerca che tende alla semplificazione degli arrangiamenti e a una certa struttura minimalista.

Ognuno dei componenti della band ha senz'altro un'estrazione musicale differente e specifiche esperienze alle spalle. Quanto è stato importante questo amalgama artistico per dar vita ai brani e agli arrangiamenti di Wandering?

Direi che è stato molto importante. Tutto il disco ha avuto diversi passaggi quasi “alchemici”. In origine, i pezzi che avevo scritto erano molto diversi da quelli attuali. Roberto Mangoni è stato il primo passaggio: da una forma prettamente rock/pop – se pur molto contaminata da altre forme musicali – a una sicuramente più complessa e strutturata, attraverso un riarrangiamento di tutti i pezzi con strumentazione da camera e pianoforte. Ada Doria e David Marsili si sono uniti in un secondo momento, definendo ancora di più la direzione, tessendo melodie e reinterpretando nuovamente le canzoni. Il terzo, quello più consistente, è stato l’intervento che Daniele Catalucci dei Virginiana Miller ha attuato su un lavoro quasi finito, introducendo drum machines, ritmo, elementi di elettronica e ricombinando i pezzi in una visione meno classicheggiante e sicuramente più moderna. Io, nel mio piccolo, ho suonato un bellissimo Korg Polysix del 1981 che riesce a donare quella patina di opacità alla Boards of Canada.

Ascoltando la vostra musica si ha la sensazione che questa porti con sé anche una componente visuale, cinematografica. Non a caso, dei sei pezzi che compongono il vostro primo ep, la metà sono diventati anche dei videoclips (Lost, Wandering e, presentato in anteprima a inizio mese, Fractalus). Quest'ultimo, in particolare, sembrerebbe confermare una tale impressione. Potresti dirci qualcosa di più in proposito?

Posso dire che questa componente visuale non è stata assolutamente programmata, ma una una cosa molto spontanea. Dopo la realizzazione del disco, ci siamo resi conto che queste musiche potevano fungere benissimo da colonne sonore, oltre che da semplici canzoni. Complice forse anche la lunghezza dei pezzi (quasi tutti sui 5 minuti) e la struttura orchestrale che porta con sé l’immaginario cinematografico. Nella loro forma originaria, prima dei passaggi alchemici di cui sopra, i brani tendevano sicuramente a raccontare già un flusso di immagini; vuoi per i testi che potrebbero sembrare descrizioni di fotogrammi cinematografici, vuoi per la struttura dilatata e per le atmosfere intimiste che incoraggiano a intraprendere un vagabondaggio dentro se stessi, a essere comunque dei “viaggiatori statici”. In fase di arrangiamento e produzione queste caratteristiche latenti sono state poi abilmente evidenziate ed esaltate, e adesso stiamo provando a fare in modo che ciò avvenga anche nel nuovo disco che è in lavorazione.