The Square, film di Ruben Östlund, è il nuovo vincitore della Palma D’Oro a Cannes. Il film inizia con il protagonista Christian, recitato da Claes Bang, che viene intervistato nella sala del museo di arte contemporanea da lui gestito; subito ci colpisce la potenza del nulla e del grottesco mostrati attraverso il protagonista e la giornalista che lo intervista, che sembrano non avere più la pallida idea di quello che stanno facendo; alle spalle del gallerista campeggia la frase di un’installazione artistica “You have nothing” (“Tu hai nulla”), che poi si accorcia in “You have” quando i protagonisti parlano dei prezzi delle opere d’arte, e in “You ha” quando si crea un imbarazzo palese a causa di vecchie affermazioni di Christian riportate dalla giornalista.

Tutto il film ruota intorno a un'installazione, The Square, che è un quadrato con una targa che recita “un santuario di fiducia e altruismo… al suo interno tutti condividiamo uguali diritti e doveri”. Sembrerebbe però che nell’universo proposto dal film il protagonista e anche il resto delle persone siano l’esatto opposto.

Tutti quanti sono alla ricerca di nutrimento per il proprio ego, dai pubblicitari che creano uno spot che va al di là della sana libertà di espressione, all'aiutante di Christian, che propone un’idea folle al gallerista che scatenerà le peggiori avversità; ma anche la giornalista in cerca di risposte dal suo amante, che in realtà alla fine è solo una scenata “napoletana”, diremmo noi italiani, attuata per potersi sentire apprezzata da un uomo ricco e potente.

Sembra che la libertà di espressione sia sfuggita a tutti di mano, anche all’artista di The Square che parla di valori riconducibili al concetto di rispetto e poi rovina una statua, che sarà pure dell’ancién regime ma rimane comunque un’opera dal valore storico; così la sua operazione iconoclasta non è tanto diversa da quella dei terroristi, come anche l’operazione dei pubblicitari non si discosta molto dai criminali internazionali. Pare dunque che le persone piuttosto che accettarsi guardandosi allo specchio preferiscano raccontarsi bugie, come le scuse di Christian al bambino, o le figlie del gallerista che affermano di fidarsi delle persone e poi non lasciano i cellulari per terra come indicato dall’installazione artistica.

Vittime di questo immondezzaio di egomostri sono i bambini, che non possono fare altro che adattarsi per sopravvivere, e i senza tetto, che anzi mostrano una forza d’animo interiore molto superiore, in particolare nella scena al centro commerciale in cui si vede uno di questi in preghiera mentre elemosina, e poi guarda il cielo quando gli viene fatta una richiesta da Christian davvero imbarazzante, ai limiti della realtà.

L’ego di Christian è dichiaratamente svelato dal regista, che in una scena lo farà esplicitamente affermare dalla giornalista: è un uomo concentrato unicamente sul proprio valore formale più che da quello sostanziale, infatti finirà in un cumulo di rifiuti, simbolo della profonda sporcizia dell’anima del protagonista e probabilmente del genere umano. Perché rimane comunque il fatto che l'intenzione del regista non è quella di mettere il pubblico contro il protagonista ma di fare in modo che il pubblico si immedesimi e quindi si riconosca in lui, rappresentante dell’umanità occidentale. Verso la fine del film anche il regista stesso deve rispondere al pubblico della sua libertà di espressione. Un'umanità che vive di paura, rancore e violenza come rivela l’artista pazzo alla cena di gala. Tutti alla fine cercano la redenzione, ma spesso quando ormai è troppo tardi, perché come ha insegnato Paolo Sorrentino nel film This must be the place “Tardi è tardi”.