Può apparire facile, semplice, delineare le caratteristiche di un personaggio dell’età d’oro del mondo del cinema, hollywoodiano e no! Basterebbe limitarsi a leggere pagine e pagine di biografie autorizzate e non, ricercare documenti, filmati, ricostruzioni, aneddoti, guardare pellicole che hanno fatto la storia cinematografica. Se ne trarrebbe un’idea certamente interessante. Ma è tutto? O esiste anche la possibilità di “vedere” attraverso la vita, l’evoluzione, la persona oltreché l’artista e come l’una dialoghi con l’altra? Ed è un lavoro che può anche riservare elementi di novità? Sicuramente vale la pena di tentare!

È quello che ha fatto Margherita Lamesta Krebel, giornalista e scrittrice di cinema, teatro, arte e moda. Destinataria di questa sua attenzione Audrey Hepburn, mito e icona di generazioni di donne e sicuramente tra le più significative attrici di cinema del Novecento! Interprete certamente versatile e di grande professionalità, ma anche e, in certo modo, soprattutto donna protagonista del suo tempo. Audrey Hepburn. Immagini di un’attrice, è il libro che prova a svelare la persona attraverso la diva e viceversa. Ne parliamo con l’autrice.

Una domanda che certamente può apparire ultronea: perché Audrey Hepburn?

Audrey Hepburn è stata una donna, una star, un’interprete dalla storia singolare nel firmamento dello star-system hollywoodiano. Singolare per la scelta dei ruoli, per il segno iconico lasciato nello stile, vivo ancora oggi, per la straordinaria ascesa al successo, più unica che rara – primo film da protagonista (Roman Holiday di Wyler, del ’53), nomination e vittoria della statuetta - per la sua amabilità, pur connessa a una figura ieratica, con un senso di nobiltà connaturato, mondato però della distanza classista tipica di star e aristocratici. Inoltre, ho voluto colmare una lacuna nella letteratura a lei dedicata. Si è parlato molto di divismo e stile ma nessuno si è soffermato più di tanto sul suo acting, niente affatto trascurabile, se nel ‘99 l’American Film Institute l’ha definita “la terza più grande attrice di sempre”, dopo Bette Davis e Katherine Hepburn. Nel mio libro, perciò, ho voluto parlare di Audrey Hepburn attraverso gli occhi dei suoi personaggi, dei magnifici cineasti che l’hanno diretta, dei suoi partner di lavoro - tutte star unanimemente riconosciute – costruendolo come un copione la cui regia fosse affidata proprio ai suoi film, testimoni oculari della donna e dell’attrice al contempo.

Una giovane donna del terzo millennio cosa vede nella donna di un’altra stagione e nella famosa attrice e stella internazionale?

La sua storia umana e artistica rivela una modernità dall’eco ancora in atto, che mantiene intatti i riflettori sul suo mito. Si è detto di lei “diva e antidiva”, dal fascino sottile e arguto, con uno sguardo ammaliatore particolarmente intelligente, bella sì ma non in senso greco e statuario – un concetto perfettamente rappresentato nella Critica del Giudizio di Kant, il grande filosofo della modernità - tutti elementi su cui la Nostra ha poggiato la sua forza di modernizzazione propagata sino ai nostri giorni. Sfuggente per natura, è stato impossibile etichettarla in un cliché. Se un personaggio trasmette una modernità tale da superare la sua epoca, attraversare le successive, arrivare a noi e probabilmente andare oltre, anche una donna del terzo millennio sente quel personaggio come fosse un suo coetaneo. In più, con Hepburn, personalmente, ho in comune un gusto rétro. Spesso i suoi partner di lavoro sono stati esponenti di un’epoca a lei precedente e io, da sempre, sono stata affascinata da un mondo cinematografico e stilistico di ere precedenti alla mia.

Stile, eleganza iconica sono cifre interpretative della donna e dell’attrice. Cosa ci trasmettono oggi? Cosa hanno voluto dire per la sua carriera, ne sono stati la conseguenza o l’origine?

Per quanto concerne la sua cifra interpretativa, Audrey Hepburn ha riportato al centro della recitazione cinematografica lo sguardo e il volto, lanciando un ponte fra gli albori del cinema e il cinema contemporaneo, e modernizzando il linguaggio della Divina – parola di Roland Barthes - per offrirlo a un pubblico nuovo, più esigente, più avvezzo al mezzo e, quindi, sempre più difficile da agganciare. Nel suo caso, stile ed eleganza iconica sono stati all’origine della carriera ma, essendosi mantenuti nel tempo in forma di eco e allure e avendo superato di gran lunga la sua epoca, insieme rappresentano l’origine e la conseguenza del mito, come fossero l’alfa e l’omega della sua stella intramontabile. Molti costumisti hanno visto in lei doti di mannequin lontanissime da elementi artefatti ma ancorate a qualcosa di semplice, immediato, eppure sofisticato. Durante la mostra del 2011, all’Ara Pacis di Roma, organizzata dai suoi figli, Sean Ferrer e Luca Dotti, che m’invitarono, c’erano molti costumi di scena, i quali avrebbero potuto essere scambiati facilmente con gli abiti nelle vetrine delle boutique limitrofe, a cinquant’anni dall’uscita di Breakfast at Tiffany’s e a quasi sessanta da Roman Holiday o Sabrina. Audrey Hepburn arriva a noi come un mito intatto, in modo del tutto naturale, e ancora oggi nessuno sente il bisogno di collocarlo in un’epoca specifica.

Audrey Hepburn è stata una diva certamente, ma è stata anche e in modo esemplare un’antidiva. Una contraddizione?

Diva e antidiva parimenti. Esattamente. Diva con un grande senso di responsabilità sociale verso il suo pubblico, il lavoro, il ruolo, la troupe, certamente sì, ma anche antidiva perché lontana dai capricci divistici, dal can can mondano, gelosissima della sua privacy e rispettosissima di quella altrui, sempre umile, eternamente discente, non per mancanza di consapevolezza ma perché animata da uno spirito di apprendimento sempre vivo. Questi due aspetti, apparentemente in antitesi, nel suo caso sono come due facce della stessa medaglia e insieme hanno contribuito alla singolarità della sua meravigliosa avventura.

La Hepburn nella sua carriera ha avuto almeno due importanti fasi nel suo lavoro, quale di queste è più aderente alla sua personalità: gli inizi o la maturità? E che attrice è stata?

Il ruolo della donna-bambina degli anni ’50 - secondo l’intervista esclusiva al Prof. Andrea Dotti, ex marito della Hepburn, riportata in appendice nel mio libro - non era affatto aderente alla sua personalità. Era tenace, forte, acuta, perfezionista, una donna con una grande capacità organizzativa. Gli anni ’60 hanno rappresentato la svolta, la modernità. Sono stati anni di ruoli che delineavano cambiamenti sociali importanti cui dar voce, scoperchiavano tabù e rompevano cliché. Quelli sono anni di grandi illusioni e delusioni storiche e di altrettanti eventi prodigiosi, come l’allunaggio, o tragici, come la guerra in Vietnam. E la Hepburn li ha rappresentati in pieno, essendo stata con Breakfast at Tiffany’s di Edwards addirittura capofila del cinema moderno teorizzato allora. Ma è anche il decennio di The Children’s Hour di Wyler o di Susy di Wait Until Dark o di Joanna di Two for the Road, tutti esempi di grande prova d’attrice. La sua rentrée degli anni ’70, poi, con la rivisitazione del mito di Robin Hood, ci offre un altro esempio di modernità dall’imprinting inconfondibile. È stata un’attrice eclettica, che ha scelto da sola il suo look moderno, ha scelto con sapienza i ruoli, costruendo in maniera molto ponderata una carriera in cui il numero delle pellicole girate è pari al numero dei suoi film famosi. Quante star possono vantare questa particolarità? Non si è mai nascosta dietro i timori di oscurare la sua stella col passaggio del tempo, che mai avrebbe potuto cancellare l’originaria grazia e freschezza tipiche del suo sguardo magnetico. Ha fatto godere e ha goduto del suo mito ma non ne ha fatto una malattia, mantenendo saldo il suo bisogno di metamorfosi e donandosi con generosità al personaggio e al pubblico.

L’impegno sociale come ambasciatrice Unicef costituisce una pagina importante per comprendere la donna oltre alla grande attrice? Ne arricchisce la figura o costituisce un’evoluzione a sé?

Ne arricchisce senz’altro la figura. È il momento in cui ha dato, a pieno, voce al suo bisogno di condividere i privilegi che la vita e la carriera le avevano regalato. Non si è mai lasciata sfruttare dalla notorietà per un tornaconto personale ma ha saputo, con sapienza, sfruttarla a sua volta, per favorire le frange sociali più disagiate e sfortunate del mondo. Ha portato avanti la sua missione senza risparmiarsi, con la sua proverbiale tenacia, pur lottando contro quel cancro che l’ha condotta alla morte a soli sessantatré anni: un regalo degli anni della malnutrizione, all’origine dei suoi accenni anoressici e degli orrori nati dal secondo conflitto mondiale, vissuti pesantemente sulla propria pelle. Suo padre, sparito quando lei aveva solo sei anni, l’ha ritrovato anziano, povero e malato, e ne ha avuto cura, malgrado l’atroce abbandono e gli ostacoli dovuti alla posizione filonazista del genitore. Tra l’altro, il suo lato filantropico e un po’ mistico lo ritroviamo anche nella rosa dei ruoli interpretati. Si pensi a Gabrielle, la suora missionaria della pellicola di Zinnemann, ambientata nel Congo belga. Il film, oltretutto, presenta una biografia del personaggio e un epilogo della storia assolutamente coerenti con quanto la diva sia sempre stata controcorrente, moderna e allergica ad ogni tipo di cliché.

Quale eredità ha lasciato alle future generazioni di donne e di interpreti?

La sua è stata una vera e propria vittoria esistenziale, non soltanto artistica, che ci fa riflettere ancora oggi. Si pensi al fatto che le star di cui si parla di più tuttora sono Audrey Hepburn e Marilyn Monroe, diametralmente opposte, addirittura in competizione per lo stesso ruolo (Holly di Breakfast at Tiffany’s), eppure tutte e due emblematiche dello stesso momento storico, malgrado Marilyn abbia appena toccato gli anni ’60… Personalmente, pur ammirandole entrambe, ho preferito Audrey. Si ha sempre un debole verso chi sentiamo più simile a noi, amplifichiamo o c’immaginiamo una qualche somiglianza ed escogitiamo qualcosa che ne giustifichi la scelta di gusto. Quel che resta di Audrey Hepburn sono lo stile, il talento puro, la malizia birichina, l’altruismo, il senso di rispetto verso tutti, una dimostrazione di divismo sul campo, senza mai prevaricare o far superare la soglia del proprio mondo privato, intimo e personale, l’eclettismo, la modernità e il cosmopolitismo. Questa donna ci lascia una grande lezione di vittoria sul tempo. Ha saputo ponderare e centellinare le sue scelte – poche ma buone – senza l’uso posticcio di appigli esteriori legati a mode.

“L’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai”, sono parole sue. Il suo obiettivo era sempre il ruolo, verso cui indirizzava corpo e anima. Si rimetteva sempre alle esigenze del personaggio, senza lasciarsi distrarre da un’affermazione narcisistica della propria immagine ma usandola nel miglior modo possibile, anche sexy e civettuolo (perché no!?), per offrire al pubblico un risultato puro e credibile. Ci sarà sempre un talent scout che dia il la alla costruzione di un mito. È naturale! Per lei fu la scrittrice francese Colette. E ci sarà sempre un consigliere che ne coadiuvi l’ascesa – nel suo caso Mel Ferrer ha avuto un ruolo decisivo - ma Audrey ci ha insegnato che ci sono altri aspetti nella vita da non tralasciare né sacrificare per la corsa al successo. È solo l’evoluzione naturale di ogni sfaccettatura della persona che ha il potere di forgiare in modo duraturo e non convenzionale una personalità e un talento.

Audrey Hepburn ci ha dimostrato che la cura e l’affinamento paziente del talento possono realmente lasciare un segno indelebile nella Storia, trasformando in un classico senza tempo una semplice vicenda umana, sia pur blasonata, come nel caso di una star, quale è stata lei. Tutt’oggi guardiamo a questa diva con immutata ammirazione e poco importa se lo spettatore/fruitore appartiene al secondo o al terzo millennio. Secondo il Prof. Dotti, arrivavano a casa oltre 200 lettere di adolescenti giapponesi, a dimostrazione di quanto il mito fosse vivissimo tra ragazze neanche nate ai tempi d’oro della sua carriera. Hepburn ha saputo superare la dimensione spazio-temporale, grazie alla messa in gioco di punti di forza nuovi, autentici e per questo trans-generazionali. La sua incredibile avventura è interessante in epoche in cui si è un po’ perso il senso della durata, dello spessore artistico verticalizzato tra cielo e tenebre, e il valore dell’esempio è un po’ finito nell’oblio. Insomma, attori non ci s’improvvisa né si diventa stelle dal nulla ma solo attraverso sacrificio, studio, lavoro e dimostrando sul campo, in maniera inequivocabile, doti di gran lunga fuori dal comune. Poi, certo! Ci vuole l’occasione.

Temo comunque che la macchina del divismo, così com’era intesa una volta, non esista più e riproporla esattamente com’era, nella società odierna, non attecchirebbe con la stessa forza di allora. Non essendoci più quel distacco sacrale tra divo e gente comune, non si hanno più le basi per quel tipo di concetto. Oggi tutti ci arroghiamo il diritto al quarto d’ora di celebrità teorizzato da Andy Warhol. Stando così le cose, possiamo limitarci a un romantico ricordo, che ci aiuti a costruire meglio il nostro futuro, cercando magari di ritrovare un po’ di riservatezza e stile, come antidoto a un presenzialismo ossessivo e il più delle volte sguaiatamente onnivoro. Con la pubblicazione di questo saggio, contribuendo nel mio piccolo al ricordo di un talento così singolare e dando voce proprio a quegli aspetti inediti del mito, ho pensato di suggerire una riflessione più approfondita su una diva che, come per magia, ancora oggi continua a conquistarci al punto di aver addirittura prestato, ormai da un ventennio, il suo volto a un fumetto: la detective Julia.
Quante altre dive possono vantare anche questo primato?