Forze telluriche e tuoni del cielo si condensano a Bologna nel progetto Hyperion: Titano “metal” nato col sogno di rievocare il periodo classico del genere, ossia quel momento negli anni 1980 in cui, sdoganandosi definitivamente dall’hard rock, l’heavy metal diventa verbo a sé: ciò, s’intende, in termini di riconoscibilità, in quanto i sentimenti di debito e gratitudine dei primi esponenti “metallici” tout court verso gli “sperimentatori” degli albori (Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, Queen …) non verranno mai meno e saranno palesati in tributi e continue dichiarazioni. Iperione, la divinità greca associata sia alla luce che al concetto di “sorveglianza” dall’alto della volta celeste, diventa così il nome perfetto per questa band bolognese che si pone quale “custode” di un suono che poi nel corso dei decenni si è diramato in molteplici direzioni, allontanandosi dal linguaggio originario.

Composti da Marco “Jason” Beghelli (batteria, ex S.O.T.), Davide “Dave” Cotti (chitarra, ex Prophecy/Prophexy), Luca “Luke” Fortini (chitarra, Imago Imperii, ex Children Of The Damned e Paul DiAnno), Michelangelo “Mitch” Carano (voce) e dal polistrumentista Antonio Scalia (basso, ex Backbones), appena subentrato a Giacomo “Jack” Ritucci, gli Hyperion nascono su spinta del batterista nel 2015 e si rifanno quindi in particolare ai “padri fondatori” Iron Maiden, Judas Priest, Metallica e Megadeth: queste almeno le influenze dichiarate e più dirette.

Va detto in ogni caso che quando una realtà viene riprodotta in modo tanto veritiero, la filologia ha certamente il suo peso, ma la parte del leone la fa la passione che ci sta dietro. Dangerous Days (2017), il debutto pubblicato dall’iberica Fighter Records (positivo che sia un’etichetta estera ad aver creduto nel gruppo), è difatti innanzitutto un disco ispirato (se ne avvisa proprio l’urgenza compositiva) e con l’anima, oltre le tecniche di produzione e le citazioni. Le canzoni si muovono fra le due sponde dell’Atlantico, chiamando esplicitamente in causa la NWOBHM (acronimo che sta per New Wave Of British Heavy Metal) e la thrash, alternando le “fedi” o fondendole senza soluzione di continuità. Si pesta per bene sul pedale dell’acceleratore e si forza la manopola del volume, secondo la prima regola assoluta del metal che consiste appunto nel portare tutto al limite, anzi di spingersi al di là di esso: una corsa strabiliante lungo l’orlo del burrone che ognuno dei membri compie con grande sicurezza ed eccitazione, tenendo comunque d’occhio i propri compagni di viaggio e dando vita a una coesione sonora che è la vera protagonista dell’album.

Se la vocalità di Carano mira alle stelle, facendone esplodere più di qualcuna e non scendendo mai al di sotto della stratosfera, le chitarre incendiarie di Cotti e Fortini sono adrenalina pura, così come la sezione ritmica di Beghelli e Ritucci (sul full-lenght il basso è ancora il suo) che assesta colpi esplosivi e produce “fragori” profondi alla velocità della luce: il risultato d’insieme è una “lega metallica” inscalfibile che presenta tutti i requisiti per porsi efficacemente sulla scena internazionale. Non manca, sia chiaro, l’amore per la coralità e la melodia, in una dimensione “Seventies”, tributo alle origini dell’heavy metal che funge spesso da interludio nella cavalcata frenetica dei brani e ben si sposa con le tematiche intrise di fantascienza (Dangerous Days è il titolo provvisorio del cult movie Blade Runner) e volte a mettere in guardia dalle insidie dei tempi correnti (Ultimatum, Incognitus) firmate da Cotti (l’autore e il compositore principale degli Hyperion).

La scaletta è solida e a prova di cedimento da cima a fondo, ma alcuni brani suonano già come dei classici della band: Dangerous Days, The Killing Hope, Forbidden Pages e Hyperion. La bella copertina “a tema” è opera dell’artista australiano Alex Ries. Un disco non soltanto per i cultori e gli headbangers bensì consigliato a tutto il popolo del rock.