Ho sempre avuto la necessità di contaminare e contaminarmi.

E di contaminarci?

Contaminarvi, sì. Ma ci riesco meno. Io riesco a contaminarmi perché fumo tremila sigarette, perché mangio, perché sono per il vizio, l’eccesso. Vivo la condizione del contaminato e la mia arte altro non può che appartenere all’opulenza. Partendo dall’opulenza, dall’accumulazione, una volta spolpata la carne con voracità, convinto di aver raggiunto il piacere assoluto, rimane lo scheletro e allora vado a rosicchiare le ossa perché sono consapevole che le ossa sono in realtà il cibo degli dei. La carne marcisce, le ossa resistono in eterno quindi io vado a cercare la qualità attraverso l’opulenza.

Giancarlo Cauteruccio non sgranocchia un osso, durante l’intervista: prende un caffè. Lo sguardo di architetto, regista, scenografo, attore scintilla, incorniciato dagli occhiali d’argento fatti apposta per lui. I decenni di direzione del Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, Firenze, dove la compagnia Krypton, fondata insieme con Pina Izzi, faceva teatro di ricerca e ospitava le ricerche altrui, sono finiti e Cauteruccio da qualche tempo non ha più un teatro-casa: il Mila Pieralli è stato risucchiato dal teatro nazionale della Toscana. Cauteruccio è itinerante. Ha realizzato Alekos al Niccolini, protagonista suo fratello Fulvio, e sarà in giugno al Goldoni con l’opera Infinita tenebra di luce.

“La questione è il rapporto fra tradizione e innovazione. Dopo l’abbandono di un luogo contemporaneo com’è il Teatro Studio dove lo spazio è a 360 gradi, un ‘laboratorio’ senza sipario, senza una vera e propria separazione fra la scena e la platea, mi ritrovo a confrontarmi con due posti che rappresentano pienamente la tradizione dal punto di vista architettonico: il Niccolini, il più antico teatro di Firenze, il famoso Cocomero, e il Goldoni, due teatri che hanno molto a che vedere anche con la messa in scena dell’opera lirica. Ho sempre frequentato i teatri di tradizione con i miei spettacoli però i miei spettacoli non nascevano lì. L’ordine dei palchi, per esempio, impone la considerazione di una visione che non è esclusivamente quella centrale quindi nel concepire lo spazio della scena devi tenere conto che ci sono delle linee di attraversamento percettivo”.

Parliamo di prosa, Alekos.

È un testo contemporaneo del giovane drammaturgo Sergio Casesi dedicato ad Alessandro Panagulis, un eroe moderno. Per raccontarlo, Casesi ha chiesto aiuto al mito e, come Prometeo regala il fuoco agli uomini, così Alekos regala in qualche modo la forza rivoluzionaria per contrastare i colonnelli greci. Ho incontrato non poche difficoltà, quelle difficoltà che invece non si incontrano con un classico che, dalla tragedia greca a Shakespeare, Pirandello, fino a Beckett, ha una potenza letteraria fortissima e puoi permetterti di muovertici dentro. In questo caso, invece, sei di fronte a un qualcosa, direbbe Pinter, in cui l’autore affonda la lama nella ferita, svelando una quotidianità che è spiazzante sul piano poetico: il regista deve fare un enorme sforzo per distrarre lo spettatore dalla parola e portarlo dentro la complessità.

In Alekos, infatti, hai “ucciso” la parola.

Esattamente. Ho fatto quasi un’operazione lirica dove la musica dal vivo, con la fisarmonica di Gesualdi e le straordinarie composizioni di Ivan Fedele, dà una struttura e allora la composizione è musicale, visuale e architettonica e tutti questi elementi contengono in sé il testo come se fosse un libretto d’opera: la parola entra a far parte del tutto. È il mio concetto di innovazione della prosa perché dopo tanta deriva nel cosiddetto teatro di narrazione, nel teatro dei giornalisti, si fa sempre più urgente il recupero dell’arte scenica che fu protagonista negli edifici dei quali stiamo parlando. Nel Seicento, nella scena barocca, il libretto veniva scritto in base allo spazio e questo non tutti lo mettono a fuoco però, per me, il testo di prosa diventa elemento che deve amalgamarsi con la struttura. Alekos parte da una situazione molto caotica che si riduce alla voce sola nella penombra, in uno spazio segnato da punti di luce bianca che sembrano stelle e allora è lì che tutta la matericità della scena, la spinta degli attori verso atti violenti sfuma e raggiunge l’essenza. Almeno, è quello che volevo, non so se è arrivato.

Lo spazio vuoto, con una lampadina che pende, è affascinante, specialmente quando l’interprete è in grado di reggere, però annulla tutto ciò che è stato il vero processo d’arte della messa in scena. Inoltre, siamo in un’epoca nella quale tutto è diventato riproducibile e allora non possiamo fermarci solo al rapporto attore-spettatore ma dobbiamo tener conto che l’attore è portatore di metafora, di visioni e lo spettatore deve essere immerso nella metafora e nella visione oltreché che nel rapporto verbale. Sennò è un ascolto che possiamo rendere radiofonico, possiamo vendere il teatro in CD uno se lo ascolta a casa magari mentre fa il bagno caldo, con una candela accesa”.

La scena di Alekos è sconvolgente.

Il professor Francesco Gurrieri, che è uno dei grandi restauratori italiani, ha notato un’azione innovativa nel contrastare la tradizione con un forte sperimentalismo: come se il palcoscenico “vomitasse” in platea le sensazioni che provo. In quella scena ci ho visto il disastro del terremoto, il potere che distrugge la libertà e usa il sopruso, la violenza. Come se davvero l’esistenza umana in qualche modo crollasse, diventasse maceria a causa del marciume interiore che l’abbassamento culturale ha provocato.

Parliamo di musica, Infinita tenebra di luce. L’opera sarà in prima esecuzione assoluta a giugno per il Maggio Musicale Fiorentino.

Qui siamo di fronte a Rainer Maria Rilke, un monumento. Infinita tenebra di luce è uno dei versi delle Poesie alla notte. Avrò l’orchestra dal vivo, quattro cantanti e una voce recitante. L’idea del compositore Adriano Guarnieri di inserire la voce recitante proprio nella partitura mi da la possibilità di spostare la messa in scena lirica nella messa in scena teatrale.

Ancora la contaminazione.

Il ribaltamento linguistico è quello che mi ha sempre interessato così come quando porto il teatro sulle architetture… L’ordine dei palchi di un teatro all’italiana che cos’è se non la piazza? Al tempo, durante le rappresentazioni c’era sempre la luce delle candele che non potevano essere spente con un interruttore, palcoscenico e platea erano condivisi. Io spettatore antico ho la possibilità di guardare la scena, il mio nemico in affari a destra, la donna che mi piace a sinistra, ho la moglie accanto, sono vivo. Sono vivo! Noi questo lo dobbiamo rispettare, recuperare. Invece che facciamo? Un uso moderno di una struttura antica. E allora vengono fuori le stagioni dei teatri nazionali che giocano a far numero, spesso perdendo, non tanto la qualità perché ci sono attori molto bravi anche del mondo della televisione, ma il senso del progetto culturale.

E non si incide sul pubblico.

O si incide male. Diceva il grande economista Graziani: non è la domanda che condizione l’offerta, purtroppo è l’offerta che condiziona la domanda. Chiesi a una dirigente di un ente teatrale perché non mettesse in programma i miei lavori. Perché sono troppo impegnativi e i politici non li vogliono perché preferiscono spettacoli leggeri, mi rispose. Vabbè, se è così. Io mi illudevo che lo Stato dovesse lavorare sull’impegno e dunque anche sul sacrificio della conoscenza perché che la conoscenza sia dolore non è che lo abbiamo inventato noi, pensiamo a Pitagora. Anche Giovanni nel suo Vangelo dice: presi il libriccino dalle mani dell’Angelo, lo mangiai e nella mia bocca era dolce come il miele ma quando l’ebbi inghiottito dentro mi si fece tutto amaro. Bisogna soffrire, soffrire bene. Beckett invita a fallire meglio. È questo è il senso dell’esistenza: la consapevolezza del fallimento. La sofferenza non avrà il sopravvento se noi la coccoliamo. L’arte non può appagare, l’abbiamo ripetuto tremila volte. L’Arte non può dare risposte, ma porre domande.

Che faceva Cauteruccio bambino?

Accanto a casa c’era un magazzino che chiamavamo la casetta, la stanza dei miei giochi, e lì allestivo palcoscenici recuperando vecchi tavoli e rubavo le lenzuola nel letto matrimoniale di mia madre la quale se ne accorgeva solo la sera perché risistemavo tutto. Mia madre mi ha sempre sostenuto. Non fece mai imbiancare un angolo di parete dove disegnai delle croci, forse ero stato suggestionato da un cimitero, croci grandi che poi si rimpicciolivano, proprio con il senso della prospettiva. Quando si dice che artisti si nasce non si diventa è una scemenza però… sicuramente c’è una sensibilità che ti porti dentro e sviluppi, una capacità di osservazione anche elementare. Ancora oggi, se ho una vista dall’alto, quando vedo arrivare qualcuno scommetto con me stesso: rispetterà o no gli spazi? Utilizza i riquadri oppure taglia con il piede l’unione fra due elementi? Io se cammino su un lastricato cerco di non disturbare la linea di confine fra una piastrella e l’altra. Sarebbe materiale da psicanalisi, però mi sottraggo. Ho fatto l’esperienza di un anno e mezzo, naturalmente freudiana. In tante sedute non ho mai detto una parola, ma godevo tantissimo in quei quaranta minuti, disteso, con una persona dietro di me che ascoltava il mio silenzio”.

Oltre alle piastrelle, i volti?

Certo, sono fondamentali! Capisco immediatamente che cosa si nasconde dietro un volto, non mi sbaglio quasi mai. Percepisco anche le pulsioni, intuisco se una persona è sessualmente forte o debole. E quando mi è capitato di verificare… Purtroppo l’umanità si sta pietrificando, il prossimo progetto volevo intitolarlo Cemento, ma poi ho scelto qualcosa di più positivo.

Hai reputazione di incorrotto.

Io avrei voluto essere corrotto! Ho provato a farmi corrompere, ma non ci sono mai riuscito. I ministeri mi tagliano i fondi e mi rovinano la vita, dopo 25 anni di Teatro Studio se ne fregano di me e nonostante abbia fatto i tentativi per aggiustare le cose, da calabrese dovrei essere anche bravo… niente da fare. Non ho proprio la stazza, cioè fisicamente sì (ridacchia n.d.r.). Poi non riesco a riconoscere il fatto di aver sessantadue anni e mi sento un trentenne puro, ancora incerto”.

Evviva, il maestro Cauteruccio ha un sacco di tempo in più per fallire meglio.