È un bel momento per la cantante e compositrice Michela Lombardi, uno dei nomi più quotati del nostro panorama, che oltre a una ferrea conoscenza dei fondamentali (con pregevoli rivisitazioni del repertorio di Chet Baker e Phil Woods, ma anche nel dorato canzoniere di Johnny Mandel) ha di recente compiuto una calibrata incursione fra le canzoni dell'icona pop Madonna, con un disco che ha ospitato anche gli interventi dei maestri americani Don Byron e Steven Bernstein. "Live to tell", presente sulle principali piattaforme di distribuzione a nome suo e del Riccardo Fassi trio, costituisce appunto lo spunto per questa intervista esclusiva e cordiale.

"L’idea di riarrangiare in jazz i brani di Madonna - ribadisce Michela - è venuta da Alfredo Saitto, storico discografico romano, per anni Department Director della Rca italiana, uno che Madonna l’ha conosciuta di persona quando era agli esordi. Alfredo chiamò Riccardo Fassi, pianista, compositore e arrangiatore – noto per i suoi lavori su Frank Zappa, e nel suo ultimo disco ha chiamato alla voce proprio Napoleon Murphy Brock, il vocalist che cantava con Zappa – proponendogli il progetto e dicendogli di formare una band che avrebbe poi lavorato in maniera corale alla scelta dei brani e agli arrangiamenti. Così Riccardo, che è stato il mio professore al Conservatorio Cherubini di Firenze, ha poi coinvolto me, Luca Pirozzi al basso e Alessandro Marzi alla batteria, e poi gli special guest Don Byron e Steven Bernstein. Quando mi ha proposto questo lavoro ha trovato terreno fertile: per tutto il 1986, infatti, la mia passione musicale principale era stata proprio lei, Madonna Louise Veronica Ciccone, e il suo disco cult “True Blue”. Abbiamo lavorato senza fretta e con grande dedizione e senza fretta agli arrangiamenti, alcuni dei quali sono nati anche in studio di registrazione, e il risultato è questo disco – pubblicato dall’etichetta newyorchese Dot Time Records e presentato al «jazzahead!» di Brema – che abbiamo intitolato “Live To Tell”, come una delle canzoni più belle di Madonna.

La tua passione verso questa musica ha una radice obbligata in Chet Baker, come lo hai scoperto e quando hai deciso poi di effettuare un doppio tributo nei suoi confronti, quali criteri hai adottato nella scelta del repertorio?

Ho scoperto Chet Baker rovistando tra i vinili di mio padre, appassionato di jazz, e da ragazzina mi sono innamorata del suo viso malinconico e della sua voce d’angelo. La possibilità di registrare tre dischi in suo onore è scaturita dalla passione di Paolo Piangiarelli, patron dell’etichetta Philology. Avevo già pubblicato il mio primo disco con lui, dal titolo “Small Day Tomorrow”, quando il pianista, compositore e arrangiatore Riccardo Arrighini, in procinto di registrare alcuni lavori per la Philology insieme a Paolo Benedettini e Alessandro Minetto, chiese a Paolo di potermi avere tra gli ospiti in quanto autrice delle lyrics. Paolo gli propose allora di farmi registrare anche un tributo a Chet, una passione che ci accomunava. In seguito, circa due anni dopo, sono arrivati – sempre su proposta di Paolo – altri due dischi dedicati a Baker, stavolta con il trio di Renato Sellani, insieme a Massimo Moriconi e Stefano Bagnoli. In tutti e tre questi lavori sono presenti dei miei “vocalese”, ovvero dei testi che ho scritto su alcuni famosi assoli di Chet. Scrivere testi sugli assoli è una delle cose che mi piace di più, e che uso molto anche nella mia attività didattica nei tre conservatori di La Spezia, Livorno e Sassari. Mi chiedi poi della scelta del repertorio: in questi tre lavori ho cercato di includere sia i brani preferiti di Piangiarelli (ha insistito perché facessi “My Funny Valentine”, che temevo un po’ per via dei grandi che in passato ci si sono confrontati, e invece Cadence Magazine NY ha particolarmente apprezzato la nostra versione!) sia quelli che io amavo di più (come “I Fall In Love Too Easily”), e ho selezionato quelli con gli assoli per i quali sentivo di voler scrivere dei testi (in particolare “It Could Happen To You” e “Look For The Silver Lining”).

Invece con te come è andata: ti sei scoperta cantante, hai deciso di fare la cantante o cosa altro?

Ho sempre saputo, fin da piccola, di avere la vocazione del canto. Ma non era facile riuscire a vederlo come un lavoro. Ho preso una laurea con lode in Filosofia, poi un master in Comunicazione Teatrale, finché non mi sono arresa all’evidenza: stavo già facendo tutto quello che fa un musicista di professione – fare concerti, frequentare il conservatorio, seguire molti corsi e seminari per migliorarmi e insegnare – e quindi era giunto finalmente il momento di dedicare a questa vocazione tutto il mio tempo.

Quale è stato il tuo riferimento stilistico e come e se si è evoluto nel tempo?

I miei primi riferimenti erano pop (ho già detto di Madonna, ma prima ancora Elvis Presley e i Beatles), poi verso i quattordici anni sono arrivate le cantautrici come Suzanne Vega, Tracy Chapman e Michelle Shocked. In seguito, verso i diciotto anni, è esploso l’amore per il soul di Aretha Franklin e il rock blues di Janis Joplin. Già verso i vent’anni ero passata al country-rock di Bonnie Raitt e Sheryl Crow, alla personalità rock inimitabile di Tori Amos ma anche alla vocalità cristallina di Noa. Ecco, le radici sono lì. Poi, attraverso la figura di Joni Mitchell, sono andata verso il jazz, che già avevo conosciuto con il vinile di Chet di cui ho detto poco fa e con un altro lp trovato tra i dischi di papà: il live allo Shrine Auditorium di Ella Fitzgerald. A ventuno anni andavo a Bologna ogni due settimane per studiare con Tiziana Ghiglioni.

Una discografia importante alle spalle che denota curiosità e versatilità, come scegli i brani (vedo che adori anche un certo tipo di ballad che gli americani definirebbero torch song), che poi godono della tua interpretazione? Ellington in fondo diceva che tutto si può suonare bene o male...

Ho fatto semplicemente mio il consiglio che mi dette Jay Clayton, una straordinaria interprete americana che appunto mi disse: «Non cantare una canzone perché ti piace: cantala perché la ami».

Qual è stato l'incontro più importante della tua carriera e cosa hai imparato dal jazz al di fuori della musica stessa?

L’incontro più importante della mia carriera è stato quello con il produttore Paolo Piangiarelli, un uomo di incredibile passione e competenza, che ha creduto in me fin da subito e mi ha proposto di fare dischi a cui sono molto affezionata, come l’ultimo uscito con la Philology, “Solitary Moon – Inside The Music Of Johnny Mandel” (2016), insieme a Piero Frassi, Gabriele Evangelista, Andrea Melani e ospite speciale Emanuele Cisi. Presto ne uscirà un altro, sempre voluto da Paolo, dedicato a Michel Legrand. Ho sempre sentito dire – e ne ho avuto la conferma grazie a Paolo – che l’importante è trovare qualcuno che crede in te. «Tu sei una cantante molto intelligente, sai benissimo che cosa devi cantare», mi disse Paolo mentre registravamo a Milano. È stato grazie alla sua fiducia che ho potuto registrare i due dischi del Phil Woods Songbook insieme ad una leggenda come Phil Woods, che mi scelse sia per cantare le sue composizioni sia per scrivere alcuni testi. Cosa ho imparato dal jazz al di fuori della musica stessa? Quello che il jazz, per sua natura, richiede: ho imparato ad ascoltare, rinnovare e rinnovarmi, accettare e condividere, e anche a rischiare un po’.

Ma il jazz è più difficile da cantare se si è uomo? Questo potrebbe spiegare il nettissimo vantaggio delle quote in rosa, almeno per quanto riguarda questa dimensione...

No, non credo sia una questione di maggiore difficoltà per i maschi. È che è più frequente che imbraccino uno strumento prima ancora di provare a sentire che suono ha la loro voce. Alcuni dei miei musicisti cantano divinamente e potrebbero benissimo fare i cantanti, ma mi tocca insistere per convincerli, ogni tanto, a cantare qualcosa con me!

Quali idee, tendenze e prospettive vedi per i nostri jazzisti più giovani?

Per i giovani jazzisti vedo molte prospettive in più rispetto agli anni in cui ho iniziato io, quando era difficile trovare i brani (perché non c’era Spotify), vedere i live (perché non c’era YouTube), entrare in contatto con altri musicisti (perché non c’erano molte jam session e neanche i social!) e studiare (perché le scuole di musica moderna erano pochissime – io andavo fino a Bologna! – e nei conservatori ancora non si studiava il jazz).

Cosa ti aspetta in questa estate e qual è il prossimo sogno in musica ancora da realizzare?

Questa estate farò molti concerti con il Nico Gori Swing 10tet, col quale abbiamo appena pubblicato il disco “Swingin’ Hips” con ospiti Stefano Bollani e Drusilla Foer, e tornerò sul palco anche con il progetto “Live To Tell” (suoniamo al Crema Jazz Art Festival a metà luglio) e con “Solitary Moon” (saremo a Prato per “Insantorsola 2018” ai primi di agosto), oltre alle date in trio con Piero Frassi e Nico Gori (con un repertorio tutto dedicato alle voci femminili che amo, e che presto si concretizzerà in un disco). Dopo l’estate decideremo poi quando pubblicare un disco che abbiamo inciso in trio io, Giovanni Ceccarelli e Luca Falomi (tutte composizioni di Giovanni, con ospiti speciali che sono soprattutto grandi amici). In autunno riprenderà anche l’esperienza della Fonterossa Open Orchestra diretta da Silvia Bolognesi, con la quale lavoriamo sulla conduction, sui suoni d’avanguardia e su partiture non convenzionali. E ho pure nel cassetto un disco – già registrato, e in attesa pubblicazione – con Alberto Marsico e Alessandro Minetto dedicato al grande Mose Allison. Infine, un altro sogno si sta per realizzare... perché fra pochi giorni entrerò in studio di registrazione per lavorare con il pianista Piero Frassi e il suo trio “Circles” composto da Gabriele Evangelista e Bernardo Guerra, su un nuovo progetto che consiste nella rilettura di un grande autore pop-rock, ma non posso ancora dirti chi: è una sorpresa!